La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c2
Nel decennio successivo le
critiche aumentarono. Stando alla «Berliner Stimme», l’organo della SPD, nel
1918-1919 il gruppo dirigente del partito aveva totalmente rinunciato ad operare per
un attivo cambiamento della organizzazione politico-sociale e alla fine non aveva
voluto altro che «pace e ordine». A differenza di Ebert e dei suoi compagni, così
ancora il giornale, Rosa Luxemburg poteva essere considerata una delle «poche figure
storico-politiche» sulla cui eredità si poteva
«legittima
¶{p. 64}mente fondare in questo Paese una tradizione democratica»
[22]
. Un simile approccio, tuttavia, non ottenne solo consensi, tanto che nel
1986-1987 un gruppo di socialdemocratici conservatori riuniti intorno all’ex
borgomastro Dietrich Stobbe si oppose, in un documento di lavoro, alla
partecipazione del partito ad una pubblica assemblea commemorativa in onore di
Luxemburg e Liebknecht. A loro giudizio, un riferimento a Rosa Luxemburg sarebbe
tornato «poco utile» al sostegno delle posizioni politiche del partito; e con toni
insolitamente offensivi aggiunsero: «I socialdemocratici hanno contribuito in modo
decisivo alla fondazione della prima democrazia tedesca e alla sua salvaguardia con
tutte le loro forze, e lo hanno fatto anche accettando la divisione del movimento operaio»
[23]
.
Mentre questi contrasti
fecero emergere ancora una volta la grande
diversità di giudizi esistente tra i socialdemocratici in merito al ruolo svolto dal
partito durante la rivoluzione di novembre, nel 1988, in occasione del settantesimo
anniversario della rivoluzione, il sindaco cristianodemocratico di Berlino ovest
Eberhard Diepgen riconobbe il grande contributo dato da Friedrich Ebert, il quale,
disse, aveva preso con successo una «fatidica decisione» e si era adoperato – «cosa
di cui andava ringraziato» – affinché la «neonata repubblica [si orientasse] in
senso filooccidentale e [optasse] per la divisione dei poteri in luogo della
dittatura del proletariato»
[24]
. In questa costellazione di idee, durante la seconda metà degli anni
Ottanta riaffiorarono le diverse e contrastanti posizioni dei decenni precedenti, in
altre parole la tesi dell’«aut aut» e quella delle «chance perdute», stando alla
quale non si era voluto percorrere ¶{p. 65}fino in fondo la via,
assolutamente praticabile, dell’alternativa democratico-socialista.
Ma questo revival non fu niente
di più di un rinnovato, breve bagliore storico-politico. Durante gli anni Ottanta,
in realtà, l’interesse per la rivoluzione di novembre continuò, sia pure in modo
strisciante, a declinare. Nel frattempo non si era raggiunto alcun consenso in
merito alla sua interpretazione. Lo stato della ricerca sembrava essersi arenato, e
il campo della cultura della memoria rimaneva per così dire incolto. Fino al
novantesimo anniversario i profondi cambiamenti del biennio 1918-1919 furono a tal
punto messi in secondo piano dalla ricerca storica e ignorati dal grande pubblico
che sembrò giustificato parlare di «rivoluzione dimenticata»
[25]
.
Come spiegare questa strana
amnesia? Divenuta col tempo sempre più matura, la RFT smise di percepirsi come una
soluzione provvisoria e fece sempre meno riferimento a Weimar come fattore
identitario, sicché a partire dagli anni Ottanta anche la rivoluzione di novembre
perse progressivamente di importanza. La cesura storica del biennio 1989-1990 non
cambiò sostanzialmente le cose, e la nuova rivoluzione del novembre 1989 non
contribuì a ridestare l’interesse per quella del novembre 1918. Poteva sembrare
paradossale, ma con la nuova «rivoluzione in corso», così Habermas
[26]
, l’interesse per le rivoluzioni diminuì invece che aumentare. Sembrava
insomma raggiunta la «fine della storia»
[27]
, per dirla con un’altra illustre firma di quegli anni.
¶{p. 66}
4. Considerazioni conclusive
Solo di recente si è potuto
assistere ad un significativo ritorno di attenzione sul tema
[28]
. Il fatto che l’interesse per la rivoluzione di novembre, come per tutto il
periodo di grandi cambiamenti del primo dopoguerra, sia tornato ad aumentare si può
spiegare con l’irresistibile potere di attrazione che esercita ogni giubileo centenario.
Da qualche anno a questa parte, d’altro canto, si è venuta aggiungendo una accresciuta
sensibilità per le problematiche attuali, che ricordano molto da vicino quelle del 1918.
L’attuale, diffusa sensazione di crisi favorisce il revival rivoluzionario. Nel
frattempo, anche la ricerca accademica impegnata su questo terreno si è ridestata dal
suo lungo letargo. Sotto diversi aspetti essa è alle prese con uno stato della ricerca a
suo tempo rapidamente «congelato» e ora di nuovo «scongelato» ma che solo lentamente si
arricchisce di nuovi, originali contributi. Sono soprattutto approcci culturali,
mediatici, intellettuali e relativi alla storia della mentalità quelli che
contribuiscono a raccontare e a decodificare la varietà delle percezioni e delle
esperienze che caratterizzò la complessa fase rivoluzionaria.
Anziché almanaccare con le
conoscenze degli storici di oggi, sulla base di premesse normative ogni volta diverse,
intorno a possibili, migliori alternative riguardo a vicende storiche ormai appartenenti
al passato e formulare una relativamente semplice narrazione di successo o di fallimento
per rinfacciarla ai protagonisti di quegli anni, sarebbe preferibile mettere al centro
dell’attenzione le loro idee, le loro aspettative e le loro esperienze. In tal modo
emergerebbe un quadro quanto mai vario e ambivalente, un quadro che appare decisamente
interessante proprio perché ci riporta in un’altra epoca e solleva questioni ancora oggi
attuali, e questo senza alcuna pretesa ¶{p. 67}di risolverne la
complessità tramite grossolane analogie: come nascono e si sviluppano le democrazie in
tempi difficili, come vengono viste e «vissute», quali sfide devono fronteggiare e come
possono assicurare la loro sopravvivenza?
Grazie ad un simile modo di
ricordare il rivoluzionario autunno del 1918 si evita per lo meno di circondare a
posteriori gli eventi di una aureola di democrazia o di considerarli in maniera
deterministica come destinati al fallimento. Esso,
inoltre, non sovraccarica l’immagine (desiderata) della rivoluzione con le più alte
aspettative, peraltro possibili solo in via teorica. Già un anno dopo la rivoluzione di
novembre, Theodor Wolff, che abbiamo citato all’inizio e che nel novembre del 1918 non
nascose la sua euforia di fronte agli eventi di cui era spettatore, giunse alla
conclusione, con un misto di disincanto e umiltà, che era importante fare chiarezza sul
fatto che «solo la rivoluzione, per quanto il suo sole fosse ormai offuscato, ha
comunque garantito al popolo tedesco i diritti e i difficili doveri di una nazione
maggiorenne; e questo va riconosciuto, anche se ad essa viene negata la ghirlanda celebrativa»
[29]
. Benché pacata e modesta, questa conclusione fornisce comunque una valida
ragione per mantenere vivo l’interesse sulla rivoluzione di novembre come
controverso luogo del ricordo della storia della
democrazia tedesca.
Note
[23] Rosa Luxemburg e i socialdemocratici. Un documento di lavoro dell’SPD berlinese, in D. Dowe (ed), Arbeit am Mythos Rosa Luxemburg: braucht Berlin ein neues Denkmal für die ermordete Revolutionärin?, Bonn, Historisches Forschungszentrum, 2002, pp. 25-30, qui pp. 29 s. (pubblicato la prima volta in «Der Tagesspiegel», 19 febbraio 1987).
[24] Riproduzione di Rt. [Ralf Georg Reuth], Berliner CDU gedenkt der Ausrufung der Republik vor siebzig Jahren, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 9 novembre 1988.
[25] A. Gallus (ed), Die vergessene Revolution von 1918/19, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2010.
[28] Cfr. anche A. Gallus, Revival einer Revolution. Historisierung und Aktualisierung der Umbrüche von 1918/19, in S. Kinzler - D. Tillmann (edd), 1918. Die Stunde der Matrosen. Kiel und die deutsche Revolution 1918, Darmstadt, Konrad Theiss Verlag, 2018, pp. 18-23; dello stesso autore, 1918 bis 2018: Zwiespältiges Gedenken an Frieden, Nachkrieg und Revolution, in «INDES», 2018, 1, pp. 56-63.
[29] T. Wolff, Die deutsche Revolution, in «Berliner Tageblatt», 10 novembre 1919, in T. Wolff, Tagebücher 1914-1919, pp. 850-855, qui p. 855.