La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/p1
Moritz Föllmer affronta un tema
ancora poco esplorato dalla ricerca storica, eppure cruciale per la comprensione del
nesso di relazione tra democrazia e modernità nell’esperienza weimariana – la tensione
irrisolta tra le aspirazioni all’autonomia individuale e le spinte collettivistiche
dell’epoca. Föllmer accentua la grande rilevanza che ebbero le aspirazioni all’autonomia
individuale nella società tedesca del primo dopoguerra, sostenendo che esse si
manifestarono con maggiore irruenza rispetto al passato, producendo tuttavia il più
delle volte effetti contraddittori. Le ragioni profonde di questa spinta
all’individualizzazione delle aspettative vengono ricondotte in parte ai processi di
modernizzazione sociale e di liberalizzazione politica risalenti al XIX secolo, in parte
alle conseguenze della cesura epocale segnata dall’esperienza storica della Prima guerra
mondiale. In questo contesto viene ulteriormente sviluppato il tema tocquevilliano già
richiamato nel contributo di Wirsching della democrazia come portatrice di una promessa
di autodeterminazione individuale e delle sue intrinseche contraddizioni. Föllmer
argomenta infatti che paradossalmente furono soprattutto le forze democratiche a
incontrare le maggiori difficoltà a intercettare e soddisfare
¶{p. 22}le
nuove istanze create dal nuovo assetto politico. Al tempo stesso l’autore introduce un
ulteriore elemento di riflessione sostenendo che le spinte all’autonomia individuale non
sempre si trovarono in contrasto con gli ideali collettivistici incarnati dai partiti
antidemocratici. Il partito nazionalsocialista, ed è questa una delle tesi centrali
avanzate da Föllmer, riuscì a inglobare il tema dell’individualizzazione delle
aspettative all’interno della sua piattaforma ideologico-programmatica e a trarne grande
beneficio in termini di consensi.
Kirsten Heinsohn si sofferma sul
dibattito sulla parità di diritti delle donne che si sviluppò nella Germania weimariana.
Al centro della sua analisi ci sono la Costituzione e le sue controversie legate alla
sua interpretazione. L’autrice sottolinea la modernità di un testo costituzionale a suo
giudizio idoneo per gettare i presupposti per un percorso di riforme e di cambiamento
che tuttavia alla fine non trovò il consenso necessario per il suo compimento né nella
maggioranza della classe politica rappresentata in Parlamento né nella società
postbellica. Quest’ultima risultò infatti ancora fortemente ancorata ai modelli
tradizionali dei ruoli di genere. La stessa Costituzione, sottolinea Heinsohn,
presentava alcuni evidenti elementi di contraddizione: se da un lato furono introdotti
alcuni riferimenti espliciti al principio della parità giuridica tra uomini e donne, a
cominciare dal suffragio femminile, dall’altro lato la carta costituzionale riconfermò
delle norme già vigenti soprattutto in ambito privatistico che minavano alla base tale
principio. Questa contraddizione era il risultato di un’ambivalenza di fondo che si
ritrova anche nelle posizioni espresse dalla maggioranza dei padri costituenti, i quali
si schierarono a favore del riconoscimento dell’uguaglianza politica delle donne senza
però costituzionalizzare la loro parità sociale e giuridica. Secondo Heinsohn, ancor più
rilevanti furono gli ostacoli che il percorso di riforme e di cambiamento annunciato in
ambito costituzionale incontrò nelle disposizioni politico-culturali dell’opinione
pubblica e nel malessere sociale esasperato poi dallo scoppio della crisi economica. In
questa battaglia politico-culturale per la parità di diritti delle donne finì per
prevalere un orientamento conservatore, che si dimo¶{p. 23}strò
refrattario a ogni ipotesi di sovvertimento delle gerarchie sociali definite dalla
tradizione.
Christoph Cornelissen e Dirk van
Laak allargano l’orizzonte dell’analisi, inquadrando l’esperienza storica di Weimar in
un contesto più ampio e aperto alle sollecitazioni della storia globale e della storia
transnazionale. I due autori propongono un approccio centrato sulle intersezioni e
connessioni su scala planetaria, che consente di rivedere criticamente la vulgata
storica secondo cui il periodo tra le due guerre sarebbe stato caratterizzato da una
sostanziale «de-globalizzazione». Nel contesto della Repubblica di Weimar, argomentano
Cornelissen e van Laak, il successo di questa vulgata va anzitutto messo in relazione
con la «sindrome revisionista» che negli anni Venti e Trenta portò vari esponenti del
mondo intellettuale e politico tedesco a esorcizzare il trauma della decolonizzazione
subita dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale. In secondo luogo, i due autori
indicano alcuni temi il cui studio dovrebbe consentire di de-provincializzare la
comprensione storica della Repubblica di Weimar e di affrancarla da approcci e
interpretazioni appiattiti sulla dimensione nazionale. In particolare, gli autori
rivolgono la loro attenzione alle rappresentazioni coeve del nuovo ordine mondiale
basate su una visione geopolitica planetaria intrinsecamente antagonistica, ai movimenti
nazionalisti ispirati da pulsioni antiglobaliste e orientati a un revisionismo di fondo
dell’ordine internazionale e, infine, al rilevante impatto sulla società tedesca e sui
suoi modelli di percezione del mondo delle rivoluzioni infrastrutturali nel campo della
mobilità e della comunicazione, dei consumi di massa e della mutata concezione di
spazialità. Nel rapporto di tensione e nei vari cortocircuiti tra cosmopolitismo e
fenomeni di regressione nazionalista è anche possibile rintracciare una tipica
manifestazione della sopra richiamata «crisi della modernità classica» che era già stata
teorizzata per il periodo weimariano e che negli ultimi anni è tornata di grande
attualità nel dibattito sui cosiddetti «vincenti e perdenti della globalizzazione».
Vanessa Conze affronta da una
prospettiva di storia delle idee il tema delle concezioni riguardanti l’Europa e il suo
ordinamento che vennero elaborate negli anni della Repubblica di
¶{p. 24}Weimar. L’approccio finora prevalente per affrontare questo
tema, osserva Conze, è stato condizionato dalla tendenza a studiare le idee d’Europa
degli anni Venti e dei primi anni Trenta principalmente come «antefatti» o «radici» del
processo di unificazione europea avviato dopo il 1945. L’autrice si propone invece di
illustrare la grande varietà di visioni del periodo weimariano per poi argomentare
l’impossibilità di ricondurle ad un’unica matrice ideale, focalizzando l’attenzione
soprattutto sulle idee che circolavano negli ambienti della borghesia e che sul piano
politico-culturale erano accostabili al campo nazional-liberale e conservatore della
società tedesca dell’epoca. La pluralità di movimenti e circoli che si fecero
propugnatori di idee in tema di Europa offrono abbondanti evidenze empiriche che
corroborano la validità dell’approccio proposto da Conze. Inoltre, l’autrice mostra come
in questa fase prevalsero concezioni di un’Europa unita ispirate da sentimenti
religiosi, posizioni anti-secolariste ed etnocentriche che, considerate a posteriori,
appaiono inconciliabili con l’europeismo di ispirazione liberal-democratica divenuto
dominante solo dopo la Seconda guerra mondiale. Nella maggior parte dei casi le diverse
idee di Europa, che venivano associate a nozioni non interscambiabili come quelle di
«Abendland», «Reich», «Paneuropa» e «Mitteleuropa», venivano declinate in chiave di
contrapposizione sia all’internazionalismo di matrice bolscevica, sia alle tendenze alla
massificazione provenienti dagli Stati Uniti, sia infine al modello costituzionale
liberal-democratico.
Alessandro Cavalli si confronta con
il tema dell’eredità problematica di Weimar, focalizzando l’attenzione sulla comunità
epistemica dei sociologi tedeschi. L’autore propone una classificazione preliminare dei
sociologi attivi in epoca weimariana in relazione alla posizione che essi assunsero
successivamente nei confronti del nazionalsocialismo, distinguendo tra i fiancheggiatori
del nuovo regime, i rifugiati nell’esilio interno e gli esiliati per ragioni razziali
e/o politiche. La distinzione tra coloro che divennero più o meno esplicitamente
apologeti del nazismo e gli esiliati, sostiene Cavalli, riflette una più generale
diversità di atteggiamenti che i sociologi di lingua tedesca manifestarono nei confronti
della modernità ancor ¶{p. 25}prima della brusca interruzione
dell’esperienza weimariana. I primi, qui considerati come degli anticipatori di tendenze
culturali poi diventate prevalenti, erano schierati su posizioni di forte critica, se
non di rigetto, nei confronti delle trasformazioni sociali prodotte dal capitalismo,
dall’industrialismo, dal liberalismo, dal parlamentarismo e dal razionalismo e, in
alcuni casi, contribuirono alla diffusione dell’antisemitismo. I secondi si erano invece
mostrati sin da principio più ricettivi nei confronti della critica weberiana alla
commistione tra lavoro di indagine scientifica e attività di intervento politico. Le
differenti posizioni politiche, sostiene Cavalli, ebbero delle implicazioni anche sul
modo in cui i principali esponenti della sociologia weimariana si confrontarono, da un
lato, con alcuni problemi teorico-concettuali e metodologici connessi all’affermazione
della disciplina, dall’altro con le intuizioni di Max Weber, il quale non fece in tempo
a vedere la fine della repubblica, ma fu tra i pochi sociologi tedeschi che colsero
anzitempo alcuni elementi di fragilità del nuovo ordinamento democratico.
Martin Sabrow esamina, infine, le
caratteristiche e le principali evoluzioni della «cultura del ricordo» della prima
repubblica tedesca, interrogandosi sulle ragioni della lunga rimozione dell’esperienza
weimariana e della sua più recente riscoperta nel discorso ufficiale e nel dibattito
pubblico e massmediale. Le ragioni di questo percorso, sostiene l’autore, vanno
ricercate nelle complesse dinamiche dei processi di memorializzazione della storia
tedesca: quindi nel ruolo della storiografia, nei condizionamenti politici e nel
preponderante peso del presente nei meccanismi attraverso cui si struttura la memoria
pubblica del passato tedesco. In particolare, Sabrow passa in rassegna le principali
omissioni di una storiografia impegnata principalmente nello sforzo di comprendere e
spiegare il fallimento della democrazia weimariana, per poi metterle in relazione sia
con le esigenze politiche legate alla legittimazione delle due repubbliche tedesche nate
nel contesto della Guerra fredda, sia con i processi di costruzione culturale di una
memoria pubblica interamente costituita di eventi di segno negativo. Per Sabrow anche
l’improvviso risveglio di interesse per Weimar ¶{p. 26}va spiegato come
il risultato del concatenarsi di una pluralità di fattori e di processi, tra i quali il
potere di attrazione esercitato dalle ricorrenze e dagli anniversari tondi e soprattutto
un più complessivo mutamento di prospettiva storica che sta portando a risignificare
l’immagine storica della prima esperienza repubblicana sullo sfondo di un nuovo
presente.
A cent’anni dalla sua nascita, la
Repubblica di Weimar non può più essere considerata semplicemente come il «prius logico»
del nazismo o come un intermezzo tra l’epoca guglielmina e il regime del Terzo Reich: la
sua vicenda si colloca all’interno del lungo XX secolo ed è parte integrante della
storia della democrazia e della modernità europea. In tal senso, la Repubblica di
Weimar, come le altre democrazie in Europa, rappresentò il tentativo di realizzare dopo
il 1918 una democrazia che fosse al contempo liberale e sociale. L’uguaglianza giuridica
e politica, insieme alle nuove istituzioni dello Stato sociale, avrebbe dovuto garantire
la più ampia partecipazione politica possibile di tutti i cittadini. È in questa
prospettiva che dalla storia di Weimar si possono ricavare ancora oggi delle lezioni
sullo sfondo delle molteplici crisi di quella che alcuni definiscono come
«postmodernità» o «seconda modernità».
Note