La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c10
Si deve ai risultati del Trattato
di pace di Parigi se nella Repubblica di Weimar, come altrove del resto, si avviò un
rinnovato confronto sui modelli in tema di ordinamento europeo. La debolezza del sistema
europeo di Versailles, che cominciò a palesarsi già non molto tempo dopo la fine della
guerra, le mai sopite tensioni e i problemi ancora irrisolti favorirono lo sviluppo e la
diffusione di numerosi modelli alternativi di ordinamento europeo. Nel caso tedesco
questo sviluppo venne incentivato dalla ricerca di ciò che poteva facilitare la
«rinascita» del Paese e il processo di revisione di «Versailles». I tedeschi, tuttavia,
non furono incentivati a confrontarsi con le idee in tema di Europa solo dall’assetto
che il sistema europeo assunse dopo il 1919 e dai molti problemi politici sul tappeto,
ma anche dal concreto esempio costituito da una idea dell’Europa mediaticamente
rilevante con la quale nel corso degli anni Venti dovette incessantemente confrontarsi
la maggior parte delle altre concezioni sullo stesso tema. Si intende qui l’idea della
«Paneuropa» del conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, che nel 1924 mise per la
prima volta per iscritto il suo pensiero in materia di cooperazione europea. Sulla base
di una classica argomentazione geopolitica, il conte Kalergi partiva dal presupposto che
in futuro avrebbero dominato il mondo soprattutto i «grandi spazi», mentre l’Europa, che
a causa della guerra aveva perso la sua posizione di preminenza su scala mondiale,
doveva dare vita ad una «alleanza di scopo politico-economica». Da questa alleanza, che
avrebbe anche contribuito a preservare la pace in Europa e nel mondo, si sarebbero
gradualmente sviluppate una federazione di Stati – gli «Stati uniti d’Europa» (con
l’esclusione della Russia e dell’Inghilterra) – e una «nazione
europea».
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Fin dall’inizio il conte Kalergi
non si limitò – nonostante una attività pubblicistica molto intensa – ad assumere una
posizione meramente teorica. Egli, infatti, era convinto di dover trasferire la sua idea
sul terreno della politica e di dover fare il possibile per tradurla in atti concreti;
per questo fondò l’Unione Paneuropa. Passata alla storia come prima organizzazione
europeistica, l’Unione avrebbe dovuto, grazie a molteplici iniziative ad
hoc, da un lato raggiungere possibilmente vasti strati di popolazione e
dall’altro convincere esponenti del mondo della politica, dell’economia e dei media che
solo la cooperazione reciproca tra gli Stati europei avrebbe potuto assicurare al
continente una lunga era di pace e prosperità. Nell’attività della sua Unione paneuropea
ma anche nell’azione parallela che egli conduceva a livello pubblicistico e sociale,
nella sua capacità di servirsi dei mezzi di comunicazione di massa e nella
rappresentazione che dava di se stesso come europeo cosmopolita per eccellenza si trova
una forma di attività politica in favore dell’intesa europea per l’epoca del tutto
nuova. Nella Germania scossa dalla crisi degli anni Venti «Paneuropa» rappresentò per
molti un modello attraente e si dimostrò in grado – questo il suo grande vantaggio – di
raggiungere gruppi politicamente e socialmente assai distanti. Un successo che il
progetto poté ottenere anche grazie alla indeterminatezza dei suoi contenuti. Nella
formulazione dei suoi scopi politici Kalergi rimase sempre apertamente sul vago, su
posizioni forse troppo «visionarie»; e quando doveva fare i conti con le «miserie» della
politica quotidiana non si peritava di adattare senza riserve sul piano dei contenuti la
sua idea di «Paneuropa» ogni volta che intravedeva una possibilità di ottenere sostegno
politico (soprattutto quando c’erano di mezzo i «grossi calibri» della politica). Alla
lunga questa tendenza a cercare l’appoggio dei detentori del potere politico finì per
attirare su Kalergi molte critiche. Ai suoi difetti caratteriali (era notoriamente un
egomaniaco), che tra l’altro non tardarono a metterlo seriamente in conflitto con le
diverse sezioni nazionali dell’Unione paneuropea, si aggiunse anche un altro problema: a
causa della sua origine e formazione aristocratiche (in Austria) e in quanto figlio di
una giapponese a Kalergi faceva difetto, con riguardo alle numerose problematiche
politiche del suo ¶{p. 227}tempo, la prospettiva nazionale. Il che lo
pose di fronte ad un serio problema, dal momento che nei diversi Paesi europei le sue
proposte apparentemente obiettive venivano interpretate come di parte e soprattutto
formulate nell’interesse di una ben precisa nazione europea.
Considerate le discussioni
pubbliche su «Paneuropa» e la prominente posizione del conte Coudenhove-Kalergi, non c’è
da meravigliarsi se nel Reich tedesco si svilupparono e si organizzarono posizioni
contrarie apparentemente più inclini ad agire nell’interesse della Germania: posizioni
che si svilupparono in differenti contesti politici e intellettuali dando vita a diversi
gruppi e organizzazioni, di cui in questa sede si può solo fornire una selezione
indicativa. Meritano di essere qui ricordate quelle iniziative fortemente elitarie che
attraverso contatti personali e incontri – soprattutto tra tedeschi e francesi –
miravano a rafforzare la reciproca comprensione e quindi a facilitare l’avvicinamento
tra i diversi Paesi. Fondato dal pubblicista francese Pierre Viénot, il «Comitato di
studi franco-tedesco», che disponeva di proprie sedi a Parigi e Berlino, può essere
ricordato come la più importante struttura organizzativa al servizio di queste
iniziative, il cui scopo consisteva non da ultimo nell’influenzare positivamente le
rispettive opinioni pubbliche e contribuire in tal modo ad una migliore intesa
reciproca. Ma alle spalle di queste iniziative c’erano anche esponenti del mondo
industriale tedesco, francese e lussemburghese.
In questi ambienti maturò l’idea di
una soluzione europea al grave problema dei possibili conflitti economici risalente al
periodo tra le due guerre. In questo gruppo, incarnato non da ultimo nel «comitato
Mayrisch» dell’industriale dell’acciaio lussemburghese Émile Mayrisch, non sono
facilmente riconoscibili contenuti concreti. Al centro c’erano interessi di natura
economica, come ad esempio le questioni riguardanti la creazione di cartelli sullo
sfondo degli sforzi per dare vita a una comunità dell’acciaio nell’Europa occidentale,
ma anche accordi di mercato di carattere più generale. Si trattava soprattutto di
coltivare «relazioni», in altre parole di allacciare e successivamente stabilizzare
contatti in una ristretta ¶{p. 228}cerchia, spesso privata. Un
modus operandi in cui si riflette una chiara presa di distanza
dalla «macchina propagandistica» del conte Kalergi. Ai membri di questo gruppo
interessava molto di più rafforzare l’intesa a livello europeo e quella franco-tedesca
in particolare tramite rapporti personali, onde poter rafforzare l’intesa reciproca e in
tal modo anche la disponibilità a cooperare a fronte di interessi economici che erano
sostanzialmente simili. Decisamente diverse da quello «paneuropeo» erano anche altre
concezioni di Europa, tra cui meritano un cenno quelle di ispirazione confessionale, in
particolare cattolica. I loro sostenitori criticavano il modello «paneuropeo» come privo
di senso e sostenevano per contro, sotto il topos dell’«Abendland»
(Occidente), una propria concezione dell’Europa. Quanti si riconoscevano in questa
posizione, radicata soprattutto in Renania, formarono circoli per lo più
elitario-intellettuali raccolti intorno a riviste come «Abendland», fondata nel 1925
dallo studioso di romanistica Hermann Platz. Spesso caratterizzato da una forte impronta
teologica, questo tipo di approccio guardava soprattutto al passato: con il risultato di
evocare come modello di collaborazione europea un’immagine idealizzata del medioevo,
vale a dire di un’epoca storica in cui la rigorosa osservanza dei dettami della fede
cristiana aveva caratterizzato la politica e la società europee; e sarebbe stata proprio
la dissoluzione di questo ordine «voluto da Dio» per effetto della Riforma,
dell’Illuminismo e della formazione degli Stati nazionali ad allontanare sempre più il
continente europeo dall’ideale di una società universale, strutturata in modo
organico-sussidiario e basata sui precetti del cristianesimo. Per gli esponenti di
questo indirizzo di pensiero era quindi assolutamente necessario agevolare il processo
di ricristianizzazione dell’Europa, processo che andava collegato ad un modello
politico-sociale fortemente gerarchico-autoritario. Gli intellettuali e i teologi vicini
a questa visione dell’«Occidente» rifiutavano le idee di progresso e modernità, e quindi
non deve sorprendere l’ostilità di molti di loro nei confronti della Repubblica di
Weimar e del suo ordinamento statale e sociale. Nondimeno, soprattutto in Renania questi
circoli contribuirono a rinsaldare – per lo meno in ambito cattolico – l’intesa
franco-tedesca, anche se nel ¶{p. 229}loro caso non si trattava tanto di
piani di integrazione politica in vista di una Europa unita, quanto piuttosto di
articoli di riviste il cui scopo era quello di suscitare «comprensione» per i vicini
occidentali. In tal senso, l’idea di «Abendland» indicava una concezione di Europa
imperniata non tanto su progetti politici quanto piuttosto su un progetto culturale di
riavvicinamento basato sulla comune fede cristiano-cattolica.
Occorre ricordare, infine, la
significativa influenza che in Germania esercitarono anche concezioni dell’Europa che,
contrariamente a impostazioni puramente intellettuali come quella che faceva capo
all’idea di «Abendland», avevano una dimensione più marcatamente politica. Al riguardo
si può menzionare, per esempio, il Verband für europäische Verständigung guidato dal
liberale Wilhelm Heile. Heile era una figura molto vicina a Friedrich Naumann, era
membro della DDP e un convinto democratico, ma al centro del suo impegno europeo c’era
soprattutto la prospettiva nazionale. Fortemente contrario al progetto «paneuropeo» di
Kalergi (con il quale il contrasto era anche personale), Heile era convinto che solo un
accordo a livello europeo e un appianamento dei contrasti con la Francia avrebbe potuto
favorire l’accoglimento delle richieste tedesche in ordine alla revisione dei trattati
postbellici – e naturalmente sulla base della libertà e della parità di diritti del
popolo tedesco. Nella sua visione un accordo europeo alla fine sarebbe servito ad
assicurare di nuovo alla Germania, dopo la disastrosa sconfitta patita in guerra, un
posto di primo piano accanto ai vicini europei e a lungo andare avrebbe anche spianato
la strada alle ambizioni di una «Grande Germania» e mitteleuropee del Reich tedesco.
Per queste ed altre iniziative del
genere che erano state promosse negli anni della Repubblica di Weimar, il fallimento
della politica delle intese e la crisi economica mondiale comportarono una decisiva
battuta d’arresto, e non solo dal punto di vista organizzativo: vennero meno i
finanziamenti, le riviste cessarono le pubblicazioni, le organizzazioni vennero sciolte.
In realtà molto cambiò anche sul piano delle idee, con il risultato, tra l’altro, che
dopo la morte di Stresemann in Germania la riflessione si spostò sul modo migliore di difendere e soddisfare
¶{p. 230}gli interessi tedeschi in Europa. Si smise di guardare a Ovest
e ci si concentrò principalmente sulla «Mitteleuropa». Venne così rilanciata con ancora
più forza – sulla base di argomentazioni particolarmente aggressive molto utilizzate nel
periodo prebellico ma anche nel corso della guerra mondiale – l’idea di costruire un
ordine nello spazio mitteleuropeo in cui i tedeschi avrebbero potuto far valere la loro
«naturale» superiorità nell’interesse dell’Europa. A partire dall’inizio degli anni
Trenta, questo risveglio del «progetto mitteleuropeo» ricevette nuova linfa soprattutto
in relazione alle prospettive di natura economica, in particolare grazie alle
riflessioni sulla possibilità di dare vita ad una unione doganale mitteleuropea.
Sul piano discorsivo, in questo
processo giocò un ruolo centrale un altro concetto di Europa: quello di «Reich», che
divenne un concetto guida politico sia nella sua variante nazionale che in quella
sovranazionale. Il «Reich», infatti, era qualcosa di diverso e di più rispetto allo
Stato nazionale: era un concetto in sé universale.
Sicché anche i sostenitori dell’idea di «Abendland» potevano riconoscersi in esso come
fondamento dell’ordinamento europeo richiamandosi al primo Reich, quello medievale. Per
altri il concetto era importante nella misura in cui consentiva di richiamarsi invece al
secondo Reich – quello guglielmino – come struttura di potere in grado di assicurare
l’ordine europeo; per altri, infine, il concetto di «Reich» non poteva che rinviare
all’ordine mitteleuropeo nel segno della ormai decaduta monarchia asburgica. Sta di
fatto che il «Reich» offrì proprio ai gruppi conservatori presenti all’interno della
società tedesca un topos che, oltre a colmare la distanza tra
nazione ed Europa, suggeriva anche la via da intraprendere in vista di una possibile
rinascita della Germania. A prescindere dal grado di egemonia tedesca che i sostenitori
dell’idea del «Reich» e della «Mitteleuropa» auspicavano con riguardo al contesto
mitteleuropeo, ciò che comunque in quegli anni assunse un rilievo centrale fu la
crescente tendenza ad accantonare l’idea di una intesa con l’Occidente e la Francia in
particolare. Se verso la metà degli anni Venti sembrava che la rinascita tedesca potesse
essere assicurata solo grazie ad una politica di intese che guardava a Ovest, dopo il
1930
¶{p. 231}vasti strati dell’opinione pubblica cambiarono posizione.
Chi «dirige il suo sguardo a Ovest piuttosto che a Est, ebbene costui non vede la strada
che conduce al futuro», scrisse non a caso già nel 1929 Wilhelm Gürge, un sostenitore
della visione mitteleuropea propugnata da Friedrich Naumann
[3]
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Note