La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/p1
Andreas Wirsching tratteggia i
principali sviluppi temporali dell’argomento politico «Weimar» dal 1919 ai giorni
nostri, soffermandosi in particolare sugli slittamenti di senso della Costituzione
weimariana nei processi di costruzione dell’identità nazionale democratica dei tedeschi.
Identificata a partire dalla fine degli anni Cinquanta come una delle principali cause
del fallimento della prima esperienza democratica in Germania, in tempi più recenti la
Weimarer Verfassung sembra essere uscita definitivamente dal
cono d’ombra. L’autore ripercorre quest’evoluzione interpretativa, illustrando la
prospettiva di coloro che si trovarono a gestire il momento costituente nel 1919, per
poi mettere in relazione questa esperienza con le successive rielaborazioni della storia
di Weimar e le correlate
¶{p. 17}logiche di legittimazione del nuovo
assetto politico democratico della Germania federale. Wirsching suggerisce quindi di
correggere le due letture antitetiche della Costituzione come «difetto di nascita»
ovvero come esempio precoce di grande modernità e innovazione, attraverso un’analisi che
tenga maggiormente conto delle motivazioni di fondo che guidarono l’azione dei padri
costituenti. Wirsching pertanto prende esplicitamente le distanze dai modelli
esplicativi del fallimento della repubblica centrati sull’analisi delle cause esogene,
ponendo invece l’accento su quello che egli definisce «il metodo della promessa» – una
logica intrinseca alla fase costituente della prima democrazia tedesca e recante con sé
sia un atteggiamento di chiara cesura rispetto al passato, sia una promessa di
autodeterminazione collettiva e individuale che il concorso di vari fattori di natura
interna e internazionale avrebbe finito per frustrare.
Anche Alexander Gallus si confronta
con il tema delle interpretazioni controverse che di Weimar sono state date dai
contemporanei, in questo caso mettendo al centro dell’analisi il momento rivoluzionario
del novembre 1919. L’autore contesta la linearità interpretativa di alcune narrazioni
che ricercano nella rivoluzione del 1919 l’explanandum di tutto ciò
che sarebbe seguito. Adottando un approccio storicista, Gallus mostra anzitutto come gli
orizzonti di aspettativa dei contemporanei furono molto più differenziati di quanto
alcune di queste interpretazioni lasciano talvolta intendere. Politici e intellettuali
di tutte le principali culture politiche presero posizione rispetto alla rivoluzione,
spesso con atteggiamenti molto critici. Comunisti da un lato, e conservatori e
nazionalisti dall’altro, contribuirono alla costruzione del topos
della «rivoluzione tradita», sia pure ricorrendo ad argomenti propagandistici diversi:
per i primi il tradimento si sarebbe compiuto ai danni della nazione, mentre per i
secondi a discapito dei lavoratori. Tra i partiti filo-istituzionali e in particolare
all’interno della socialdemocrazia tedesca si registrò invece una varietà di posizioni e
un’ambiguità di fondo che ostacolarono sul fronte dei repubblicani il radicamento di una
disposizione culturale positiva condivisa nei confronti dell’esperienza weimariana. Le
¶{p. 18}successive rielaborazioni del momento rivoluzionario vengono
anche in questo caso messe in relazione con le suggestioni del nuovo presente e in
particolare con quelle ispirate dalla Guerra fredda, dal Sessantotto e dalla rinnovata
discussione sulle fragilità intrinseche della democrazia all’inizio del XXI secolo;
suggestioni che, secondo Gallus, non sempre consentono di mettere nella giusta luce le
idee, le aspettative e le esperienze dei protagonisti di Weimar.
Dirk Schumann focalizza
l’attenzione sui fenomeni della liberalizzazione e della militarizzazione della società
tedesca postbellica. La tesi principale sostenuta dall’autore è che questi due fenomeni
non furono affatto in contrasto tra loro, ma si intrecciarono e si condizionarono a
vicenda. Punto di partenza dell’analisi è l’origine comune dei due fenomeni, che va
ricercata nelle dinamiche della guerra e poi nella rivoluzione del biennio 1919-1920 e,
nella fattispecie, nella crisi di autorità che si determinò in quel periodo e che ebbe
come protagonista la giovane popolazione maschile. Secondo Schumann, gli effetti di
questa crisi di autorità furono poi amplificati negli anni successivi dalle conquiste
collettive e individuali della moderna società di massa, con il complesso carico di
aspettative ma anche di preoccupazioni per il futuro. Nel contributo di Schumann il
nesso tra liberalizzazione e militarizzazione riflette dunque un più ampio cortocircuito
che si sviluppò tra la svolta democratica e i cambiamenti radicali della modernità. Gli
intrecci tra i due fenomeni vengono osservati in alcuni settori della vita associativa
weimariana, in particolare in quello dello sport. Il crescente favore dei tedeschi verso
la militarizzazione della società viene messo in relazione al ruolo sempre più
importante che svolsero le unità paramilitari riconducibili ai diversi schieramenti
politico-ideologici. Schumann richiama quindi l’attenzione non solo sulla
radicalizzazione delle forze ostili all’ordinamento repubblicano-democratico, ma anche
sulle dinamiche che riguardarono le organizzazioni e i movimenti filo-istituzionali come
il Reichsbanner, un’associazione di veterani trasformatasi in forza di protezione della
repubblica. Nel contemperare e soppesare i processi e gli intrecci di liberalizzazione e
militarizzazione come fattori di ¶{p. 19}delegittimazione e
disgregazione dell’ordinamento democratico Schumann prende esplicitamente le distanze da
un’interpretazione basata sull’idea dell’inevitabilità del fallimento della Repubblica
di Weimar, e sottolinea invece l’importanza degli effetti prodotti dalla crisi
economica.
Nadine Rossol richiama l’attenzione
su un aspetto a lungo trascurato dalla ricerca storica: lo spazio della partecipazione
politica militante non fu occupato soltanto dai nemici dalla repubblica, ma anche dai
suoi sostenitori. Il contributo di Rossol s’iscrive all’interno di un più recente filone
di ricerca interessato a studiare le forme e le pratiche della rappresentazione
politico-culturale-simbolica negli anni della Repubblica di Weimar. In particolare,
attraverso una ricostruzione delle celebrazioni in onore della Costituzione nel periodo
1919-1933 l’autrice mette in discussione la tesi del presunto deficit di
rappresentazione della Repubblica di Weimar, argomentando che le iniziative e le
modalità di mobilitazione dei democratici furono tutt’altro che irrilevanti sia a
livello nazionale che locale. D’altra parte, sostiene Rossol, la focalizzazione sulle
feste della Costituzione non deve portare a oscurare le molte ambiguità presenti nel
campo repubblicano: le forme di autorappresentazione della repubblica furono spesso
oggetto di critica e di contesa tra gli stessi promotori nazionali e locali. Tra i
principali motivi di discordia evidenziati, spicca la questione fondamentale di come i
repubblicani dovessero rapportarsi con i «nemici» dello Stato: se cioè fosse preferibile
cercare di includerli gradualmente o promuovere contro di loro un’aggressiva azione
propagandistica in difesa dei principi e dei valori democratico-repubblicani. In questa
tensione irrisolta interna al composito mondo dei repubblicani tedeschi degli anni Venti
si può certamente rintracciare un ulteriore fattore di fragilità della democrazia
weimariana.
Jan-Otmar Hesse e Elisa Poletto
offrono una nuova prospettiva sulle implicazioni della crisi economica internazionale,
esplorando il tema dell’interconnessione globale dell’economia di Weimar. I due autori
prendono nettamente le distanze dalla tesi di un complessivo processo di
de-globalizzazione che avrebbe finito per aggravare la situazione economica della
¶{p. 20}Germania. Integrando i dati sul commercio estero con quelli
relativi all’interconnessione globale delle aziende tedesche, Hesse e Poletto riescono a
dimostrare come l’economia weimariana riuscì, almeno in parte, ad adattarsi e a
contrastare i processi di disintegrazione dell’economia internazionale. In una prima
fase, le aziende tedesche riuscirono a eludere i divieti politici e le discriminazioni
burocratico-amministrative del dopoguerra ricorrendo a un sistema di filiali estere
«camuffate»; dopo il periodo dell’iperinflazione, invece, le industrie esportatrici
tedesche adattarono le loro strategie alle nuove forme dell’economia globale,
promuovendo a loro volta una «cartellizzazione» interna in risposta all’intensificazione
della concorrenza sul mercato globale e organizzando la catena globale del valore a
livello nazionale attraverso un’integrazione verticale completa. Inoltre, le imprese
tedesche implementarono le loro strategie sul mercato estero stipulando una serie di
accordi con i concorrenti stranieri la cui importanza era cresciuta rispetto al periodo
prebellico. Hesse e Poletto si soffermano in particolare sulle imprese del settore
bancario, sull’industria della lavorazione del ferro e sull’industria chimica. Le
evidenze empiriche indicano per questi settori un livello di interconnessione globale
dell’economia tedesca che tuttavia sfugge alle statistiche del commercio estero sulle
quali per molto tempo è stata fondata la tesi di una sostanziale de-globalizzazione
dell’economia weimariana.
Il contributo di Gustavo Corni
sulla politica agraria aggiunge un ulteriore tassello per comprendere la radicalità
delle trasformazioni della società postbellica in Germania. Per il settore agricolo,
ricorda Corni, le implicazioni della Prima guerra mondiale furono dirompenti, ove si
considerino l’enorme numero di vittime civili per denutrizione, gli effetti catastrofici
sulla produzione, l’inasprirsi dei rapporti fra città e campagne, l’aggravarsi della
crisi di legittimazione dello Stato e l’impatto devastante sulla tenuta del fronte
interno nell’autunno 1918. All’indomani della nascita della Repubblica weimariana, i
responsabili decisionali si trovarono quindi a gestire una più ampia crisi sociale che
presto si sarebbe intrecciata con la crisi economica internazionale e con le fragilità
della prima ¶{p. 21}democrazia tedesca. Corni illustra e soppesa i
molteplici fattori che determinarono il cortocircuito tra la crisi dell’agricoltura e la
crisi della repubblica, tra cui: l’aggravamento della crisi strutturale, a cui dal
1929-1930 si sovrappose la crisi economica generale; l’inasprimento delle tensioni
sociali nelle campagne; un indebolimento complessivo delle istituzioni repubblicane, che
viene in parte collegato alle dinamiche interne ai governi presidenziali, in parte alla
radicalizzazione della protesta del mondo rurale che fino a quel momento non aveva
trovato espressione in movimenti articolati soprattutto a causa delle diversità
regionali. L’incapacità dei partiti moderati di dare rappresentanza a uno dei settori
più colpiti dalla guerra mondiale e dalla crisi economica internazionale e la crescente
litigiosità interna ai governi presidenziali sulle scelte di politica economica furono
quindi abilmente sfruttate dal partito nazionalsocialista (NSDAP), il quale riuscì a
cavalcare il malessere del mondo rurale e a trasformarlo in consenso elettorale.
Moritz Föllmer affronta un tema
ancora poco esplorato dalla ricerca storica, eppure cruciale per la comprensione del
nesso di relazione tra democrazia e modernità nell’esperienza weimariana – la tensione
irrisolta tra le aspirazioni all’autonomia individuale e le spinte collettivistiche
dell’epoca. Föllmer accentua la grande rilevanza che ebbero le aspirazioni all’autonomia
individuale nella società tedesca del primo dopoguerra, sostenendo che esse si
manifestarono con maggiore irruenza rispetto al passato, producendo tuttavia il più
delle volte effetti contraddittori. Le ragioni profonde di questa spinta
all’individualizzazione delle aspettative vengono ricondotte in parte ai processi di
modernizzazione sociale e di liberalizzazione politica risalenti al XIX secolo, in parte
alle conseguenze della cesura epocale segnata dall’esperienza storica della Prima guerra
mondiale. In questo contesto viene ulteriormente sviluppato il tema tocquevilliano già
richiamato nel contributo di Wirsching della democrazia come portatrice di una promessa
di autodeterminazione individuale e delle sue intrinseche contraddizioni. Föllmer
argomenta infatti che paradossalmente furono soprattutto le forze democratiche a
incontrare le maggiori difficoltà a intercettare e soddisfare
¶{p. 22}le
nuove istanze create dal nuovo assetto politico. Al tempo stesso l’autore introduce un
ulteriore elemento di riflessione sostenendo che le spinte all’autonomia individuale non
sempre si trovarono in contrasto con gli ideali collettivistici incarnati dai partiti
antidemocratici. Il partito nazionalsocialista, ed è questa una delle tesi centrali
avanzate da Föllmer, riuscì a inglobare il tema dell’individualizzazione delle
aspettative all’interno della sua piattaforma ideologico-programmatica e a trarne grande
beneficio in termini di consensi.
Note