Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/p3
Introduzione
1. L’esperienza della «consultazione mista» nella
società Bassetti può essere annoverata tra i molti tentativi, di epoca più o meno recente,
miranti a promuovere un dialogo istituzionalizzato tra i due termini contrapposti
dell’organizzazione aziendale: la direzione e i lavoratori, o, nel caso qui in esame, la
direzione e i sindacati dei lavoratori. La presenza di questi ultimi è caratterizzante, e
vale ad eliminare, tra i predicati possibili dell’esperienza in esame, quello di
paternalistico, quanto meno nelle forme grossolane che questo assume, allorché l’iniziativa
direzionale è orientata apertamente al dialogo diretto e immediato con i lavoratori con il
contestuale scavalcamento della rappresentanza istituzionale degli stessi.
La «consultazione» presuppone l’esistenza di due centri
di interesse separati in posizione di conflitto, attuale o potenziale. Sotto questo aspetto,
essa contraddice, quasi per definizione, altri modelli di rapporti che postulano invece il
superamento del conflitto medesimo e del dualismo fondamentale degli interessi dedotti
nell’impresa. Così, la formula autoritaria, più o meno temperata da riferimenti
organicistici ad un impalpabile «interesse dell’impresa» o della «comunità», superiore
all’interesse dell’imprenditore, fu acquisita alla dottrina giuridica da importanti filoni
del pensiero conservatore, e, nel ventennio fascista, realizzata, in Italia e in Germania,
con la soppressione delle varie forme di organizzazione operaia autonoma all’interno
dell’unità produttiva. Il corporativismo italiano si basava, è vero, sul principio di
collaborazione paritetica tra i fattori produttivi, e lo realizzava, o credeva di
realizzarlo, in appositi corpi o collegi di rappresentanza paritetica: ma questi operavano
a¶{p. 8} livello di settore produttivo, mentre lo stesso codice civile del
1942 avrebbe ribadito il principio gerarchico ed autoritario dell’unità di produzione (art.
2086). Analogamente, il Betriebsführer o capo dell’impresa in tempo
nazista, rispondeva di fronte alla nazione, ma non era condizionato da alcun rapporto
dialettico con i lavoratori. Sia pure nel quadro di una minore sofisticazione ideologica,
analoga è la condizione di fatto dell’impresa, in cui il management non
debba affrontare alcuna istanza di contestazione da parte di una rappresentanza dei
lavoratori: l’interesse di questi, come separato da quello della direzione, esiste, ma non
si esprime in forma istituzionale. A volte, ed è questo l’obiettivo cosciente o, nella
migliore ipotesi, inconsapevole, delle politiche di «relazioni umane», è lo stesso
imprenditore che si assume l’interesse dei lavoratori, assoggettandolo ad una inevitabile
distorsione.
Con l’autogestione operaia, invece, la contrapposizione
scompare nella eliminazione dell’altro centro di interessi. Le esperienze finora condotte,
massima quella jugoslava, la più autentica e la più duratura, rivelano invero che
nell’impresa autogestita il personale direttivo professionale tende ad assumere su di sé la
funzione imprenditiva vera e propria, laddove gli organi di gestione operaia finiscono per
operare piuttosto come istanze di controllo e di legittimazione del potere dei dirigenti:
per cui un conflitto si riproduce, anche se in forma sui generis.
L’autogestione si rivela infine come un sistema poco compatibile con le esigenze di
efficienza produttiva. Queste comunque sono constatazioni, non critiche. Tutto sta ad
intendersi sul termine di riferimento. L’autogestione può alla fin dei conti essere un
«mito», un’idea-forza, ma in tal qualità valere a consentire comunque una funzione di
controllo operaio, senza dubbio più efficace di quella degli azionisti nell’impresa
capitalistica. La massimizzazione dell’efficienza, a sua volta, va vista come un valore, da
accettare o non in un dato momento storico. La democrazia parlamentare è certamente poco
efficiente, ma la riteniamo accettabile perché appaga altri valori.
La¶{p. 9} partecipazione operaia in termini di gestione diretta soddisfa
certamente talune esigenze: ne sacrifica altre, ma non è valutabile con un metro di
riferimento esclusivo.
2. La consultazione, come si diceva, dà invece per
scontata la distinzione e la tensione degli interessi delle due parti, ed accetta il potere
dell’imprenditore come un dato di fatto senza contestarne la fonte. Essa, poi, può
realizzarsi in istituzioni formali (come alla Bassetti) o in un metodo di gestione, che a
volte può finire per coprire un’area anche più vasta di quella della consultazione formale.
Infine: la consultazione è uno strumento, che può servire ad una rete
svariata di risultati reali o utopici, voluti o provocati inconsapevolmente: porre in essere
una collaborazione tra i fattori produttivi; rendere più efficiente la organizzazione,
attraverso una partecipazione inventiva e critica dei lavoratori; fungere da catalizzatore
alle innovazioni organizzative stesse, operando come controspinta alla vischiosità delle
strutture; negoziare l’innovazione tecnologica ed organizzativa con garanzie e
contropartite; eliminare pratiche restrittive della produzione
[1]
; e, ancora, cercar di fornire un’identità ai lavoratori coincidente con quella
dell’imprenditore; «integrare» le rappresentanze dei lavoratori nei fini di quest’ultimo.
Tali obiettivi o funzioni della consultazione appariranno il più delle volte coesistere in
tutto o in parte, in relazione alle diverse circostanze e valutazioni delle parti, ed in
gerarchia di priorità collegata anche ai rapporti di forza esistenti nell’impresa. Un
imprenditore di mentalità moderna, ad esempio, soprattutto se operante in favorevoli
condizioni di mercato, se dotato di elevate qualità direttive o di carisma, e tanto più se
contrapposto a sin¶{p. 10}dacati deboli o impreparati ad un dialogo
impegnativo finisce, bon gré o mal gré, per
assumere una funzione trainante e, se si vuole, anche «integrante».
La consultazione, d’altronde, può essere indotta da
diverse motivazioni ideologiche, o anche a-ideologiche. Il modello cattolico del buon
imprenditore, quando non si esprime in chiave paternalistica (il patronus quasi
pater di una vecchia morale), sollecita la consultazione. Modelli di
consultazione sono emersi da applicazioni di sociologia o di psicologia industriale:
l’esigenza di eliminare le resistenze al cambiamento, analizzate nel contesto della
socio-psicologia del gruppo di lavoro, conduce a postulare l’intervento dello scienziato
sociale, e, in alcune correnti, l’adozione di metodi di gestione «democratica» basati sulla
ricerca del consenso. E qui siamo di fronte a tecniche direzionali sostanzialmente
manipolative, ribelli ad ammettere un autentico rapporto dialettico
tra posizioni di interessi contrapposti, basate su un modello di valori rispetto al quale
ogni comportamento di contestazione va qualificato come deviazione e «reintegrato», con
adeguate tecniche
[2]
. In questa categoria possiamo anche allineare le esperienze di managerialismo
illuminato nordamericano, come quelle, celebrate, dello Scanlon pian
(1937) e quelle analoghe che da esse si diramano, illustrate da una letteratura
apologetica sulla pace industriale pervenuta fino al nostro paese
[3]
.
L’ispirazione della joint
consultation britannica, iniziatasi fin dalla Grande Guerra, ed applicata per
una vasta area, ha invece piuttosto un’impronta empiristica: discutere per intendersi meglio
significa facilitare il processo di innovazione, renderlo anzitutto accettabile nonché
mi¶{p. 11}gliorare la produttività, rimuovendo le pratiche restrittive così
radicate nella tradizione operaia inglese, con un apporto costruttivo dai lavoratori
stessi.
Le Trade Unions non hanno invero
mai rivelato ostilità né entusiasmi per tale metodo, la cui applicazione o meno non poneva
del resto problemi di scelta ideologica. L’adozione dello stesso era stata d’altronde
consigliata dal famoso Rapporto della Commissione Whitley che, nominata dal governo, definì
nel 1917, con l’adesione del movimento sindacale, i principi direttivi essenziali del
sistema britannico di relazioni industriali.
Il recente Rapporto della Commissione Reale presieduta
da Lord Donovan
[4]
dà comunque atto del superamento nei fatti, più che del fallimento, di tale
politica. L’area della contrattazione aziendale «informale» ‒ quella cioè che si svolge di
fatto, in un contesto confuso di procedure, in cui il Rapporto, nel suo
leit-motiv, propone di portar ordine ‒ ha eroso le competenze degli
organi di consultazione. Ma, in una certa misura, questi hanno preparato l’altra, creando le
premesse per una discussione di problemi, che ormai, ad uno stadio
più avanzato, tendono a formare oggetto di rapporti negoziali veri e propri.
3. La tendenza registrata in una esperienza tra le più
significative, per ampiezza e per durata, presenta quindi i tratti di un’eterogenesi dei
fini. L’esperienza Bassetti, come la presente ricerca dimostra, rivela singolari punti di
affinità con tale vicenda.
Lasciamo andare comunque, per ora, questi aspetti più
specifici. Interessa rilevare, da un punto di vista più generale, come l’indagine qui
presentata, proprio perché analizza in profondità il fenomeno, sottoponga alla attenzione
del lettore una più vasta gamma di situazioni, che, viste nel loro sviluppo dinamico,
rappresentano una pagina singolare sulle vicende della grande impresa in una fase di
tecnologia in progresso. «Singolare» e forse
¶{p. 12} irripetibile, e forse
neppur da porsi come modello di sviluppo; ma non singolare come problematica, che, anzi, in
essa si rivelano tutti i complessi aspetti di una realtà evolutiva dei rapporti interni
nell’impresa, rispetto alla quale la consultazione ha operato come fattore catalizzatore e
di stimolo; così come, in altri casi, il fattore stimolante è derivato dall’introduzione di
nuovi metodi organizzativi o retributivi (tale, ad esempio, è stato l’effetto della
job evaluation presso l’Italsider).
Note
[1] Tipica in questo senso è la funzione dei productivity agreement inglesi, che vanno in pratica surrogandosi all’ormai scomparente joint consultation: rimozione di pratiche restrittive in contropartita di aumenti salariali collegati alla produttività (epperciò compatibili con la politica di controllo salariale in atto). Si rammenti che, anche presso la Bassetti, la consultazione venne introdotta insieme con il premio di produzione, all’epoca tra i primi in Italia, soprattutto come materia di negoziazione.
[2] V. l’analisi critica di Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, trad. it., Bari, 1963, p. 203 ss.
[3] Di impronta diversa sembra il caso del Comitato per le human relations della Società Kaiser in California (1959), basato sull’ipotesi illuminista che l’intervento di terzi «saggi» potesse aiutare le parti contrapposte a cercare nuove soluzioni, superando irrigidimenti dovuti sovente a carenze di spirito di ricerca e di invenzione. Trattasi di una impostazione avvicinabile piuttosto, nell’ispirazione, al modello britannico.
[4] Royal commission on trade unions and employers’ associations, 1965-1968, Report, London, 1968, p. 27.