Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/p3
Lasciamo andare comunque, per ora, questi aspetti più
specifici. Interessa rilevare, da un punto di vista più generale, come l’indagine qui
presentata, proprio perché analizza in profondità il fenomeno, sottoponga alla attenzione
del lettore una più vasta gamma di situazioni, che, viste nel loro sviluppo dinamico,
rappresentano una pagina singolare sulle vicende della grande impresa in una fase di
tecnologia in progresso. «Singolare» e forse
¶{p. 12} irripetibile, e forse
neppur da porsi come modello di sviluppo; ma non singolare come problematica, che, anzi, in
essa si rivelano tutti i complessi aspetti di una realtà evolutiva dei rapporti interni
nell’impresa, rispetto alla quale la consultazione ha operato come fattore catalizzatore e
di stimolo; così come, in altri casi, il fattore stimolante è derivato dall’introduzione di
nuovi metodi organizzativi o retributivi (tale, ad esempio, è stato l’effetto della
job evaluation presso l’Italsider).
L’idea della consultazione mista era pervenuta in
Italia, negli anni ’50, come sottoprodotto della campagna per la produttività, incanalata
dal Comitato nazionale per la produttività. Una campagna, o una retorica, di cui ad onor del
vero non si capiva bene la ragion d’essere se non nei termini di una diffusione di più
moderne metodologie organizzative; ma queste, le imprese più consistenti le vorrebbero
acquisite per proprio conto, se non lo avevano già fatto, indipendentemente dalla
predicazione di una mentalità «produttivistica», sotto la pressione delle nuove condizioni
di un mercato liberato dalla chiusa autarchica e protezionistica, e nel clima di un
interscambio culturale con i paesi più avanzati, che si faceva sempre più intenso. La
«mentalità produttivistica», infatti, non può essere prodotto di una pedagogia, bensì frutto
di una ricerca che l’imprenditore è indotto a compiere se le condizioni obiettive in cui
opera (concorrenza, conquista di mercati esteri, aumento del costo della manodopera) a ciò
lo inducono. Con la «filosofia» produttivistica si diffondevano gli
slogans delle «relazioni umane» e, in rarissima occasione, veniva
tentata la via della consultazione con i sindacati a livello
d’impresa.
Tra i sindacati, a loro volta, CISL e UIL sembravano
propensi ad affiancare tali campagne produttivistiche e a dar mano ad esperienze di
consultazione: sindacati americani, Agenzia Europea per la produttività, missioni per la
produttività in USA e varie istituzioni e iniziative analoghe li orientavano in tal senso.
Sul piano di principio, tale adesione ad una impostazione di pedagogia
managerial era alquanto discutibile per un sindacato,
o¶{p. 13} quanto meno insolita: il sindacato, pur ove riconosca che la
miglior produttività aziendale può offrirgli benefici (ma non sempre è poi così), non può
assumere in sé i valori di un credo efficientistico. Se lo fa, tale credo finisce per essere
un orpello rimosso prontamente ogni qualvolta la logica dell’efficienza, che è logica
imprenditiva, comporti conseguenze negative per il personale. Ben rileva il Flanders
[5]
che l’efficienza può essere accettata nel singolo caso dal
sindacato come regola di condotta: ma essa è sempre secondaria rispetto
ad altri fini.
Era quindi strano che si cercasse su questa base di
principio un tema di dialogo con la controparte. Ma chi volesse condannare per tale ragione
il sindacalismo minoritario degli anni ’50 commetterebbe poi un errore. Spogliato di tutti
gli orpelli, e degli equivoci che tale atteggiamento portava in sé, esso si giustificava
alla luce della drammatica condizione vissuta dal sindacalismo in quel decennio. Debolezza
contrattuale, pratiche discriminative verso uno dei sindacati, che finivano per torcersi a
danno degli altri compromettendone l’autonomia di comportamento, un clima politico generale
sfavorevole; tutti questi fattori inducevano i sindacati a non tralasciare nuove occasioni
di contatti con la controparte. Al disotto di una professione di principio (il credo
produttivistico), si scorgeva l’affannosa ricerca di porte, o di spiragli, per sortire da
una condizione di isolamento. E questa ‒ non la politica della produttività ‒ riteniamo sia
stata la vera ragione per cui talune confederazioni sindacali postularono la collaborazione
«produttivistica» e ne effettuarono l’esperimento, sia pure in casi invero episodici e con
risultati del tutto modesti.
L’esito di tale politica della produttività fu,
globalmente, negativo. Ad esso, d’altronde, contribuiva la lacerazione del mondo sindacale.
Stante la condizione di isolamento della CGIL, una delle parti nel
rapporto di consultazione si presentava monca, priva di una reale base di forza; il rapporto
tendeva a farsi «protettivo»¶{p. 14} nei confronti dei sindacati minoritari.
Quando questi rifiutavano, e lo fecero in più istanze, di obbedire alla logica del
sindacalismo protetto dalla controparte, quest’ultima a sua volta poneva in forse la
continuità della consultazione, dalla quale si attendeva atteggiamenti e risultati ben
diversi da quel rapporto di natura dialettica, aperto, prima o poi, verso uno sbocco
negoziale, al quale tendevano invece i sindacati. La stessa partecipazione ai benefici della
maggior produttività, piuttosto che nell’àmbito di schemi collaborativi connessi a rigidi
meccanismi di correlazione, finì per affermarsi come una componente della dinamica dei
livelli salariali. Lo stesso premio di produzione concepito come uno strumento per una
politica della produttività, si sarebbe evoluto in un mero correttivo aziendale del salario
contrattuale.
4. La spinta che, nella società Bassetti, diede
impulso all’esperimento fu certamente composita. Anzitutto, la consultazione mista era
un’idea, per così dire, in circolazione. Pur ferma l’opposizione, che non mancò neppure nel
nostro caso, dell’organizzazione imprenditoriale, si trattava tuttavia di concetti accettati
da organismi paragovernativi e nelle varie istituzioni sovranazionali o internazionali
(quali l’OECE) nonché, come si è visto, dalle organizzazioni dei lavoratori, con l’eccezione
della CGIL. In secondo luogo, una visione vagamente comunitaria animava i propositi
dell’imprenditore, la cui personalità è pur sempre al centro della intera vicenda. Ma, se
anche la sensibilità politica e la vocazione civica di quest’ultimo introducevano nella
scelta motivi esterni alla logica imprenditoriale pura e semplice, vi è da pensare che
quest’ultima sia stata la ragione determinante.
Nel quadro delle trasformazioni dell’industria
tessile, in un mercato sempre più difficile, nella necessità impellente di aggiornarsi
tecnologicamente e di razionalizzare l’organizzazione, l’imprenditore avvertiva l’esigenza
di precostituire uno strumento di dialogo con i lavoratori, rappresentati dai sindacati
disponibili per tale operazione. A ciò si aggiunga, anch’esso prodotto
dall’atteggiamento¶{p. 15} di un imprenditore politicamente impegnato, la
percezione che nuovi strumenti avrebbero consentito di «far crescere» il sindacato: un
motivo che emergerà sempre più frequente nelle discussioni presso il comitato aziendale di
consultazione mista e finirà anzi per diventare il più qualificante. Ed infine, l’intuizione
che la formula di consultazione avrebbe accelerato, come fattore di pressione endogena, il
necessario processo di aggiornamento organizzativo. Oltre non è consentito procedere
nell’analisi delle motivazioni. La volontà di «integrare» o di «captare» la controparte non
v’era; di certo, una volta resa operante la consultazione, sarebbero state le cose a
decidere a chi sarebbe spettata la funzione trainante, e se questa fosse destinata altresì
ad operare in senso «integrante»; anche se, nelle condizioni in cui l’esperimento si sarebbe
svolto, era però facile prevedere che il capo dell’azienda avrebbe affermato una funzione
egemonica.
Tuttavia, prima di denunciare un ruolo obiettivamente
se non soggettivamente integrante della consultazione, vi è peraltro da chiedersi se essa
non fosse destinata anche a favorire un processo di maturazione e di sviluppo del sindacato;
ove ciò si fosse verificato, il sindacato, a sua volta, avrebbe addirittura agito da
controspinta all’integrazione e finito per porre in essere una situazione di rapporti
realmente più equilibrata. L’intero esperimento decennale oscilla in realtà tra questi due
poli.
I rischi dell’operazione, nel 1958, erano comunque
consistenti, soprattutto dal lato sindacale. Ad attenuarli, favorendo anzi il processo in
senso inverso, avrebbe peraltro contribuito un fattore, che nel 1958 era ancora nel novero
delle cose sperate. Non più di due anni dopo, infatti, sarebbe giunta a maturazione una
grande ripresa della lotta sindacale. Tema centrale di quest’ultima sarebbe stata la
contrattazione aziendale. La consultazione alla Bassetti si trovò pertanto a procedere in un
clima generale completamente rinnovato, in cui principi come l’ammissibilità di rapporti
negoziali a livello d’impresa, che erano prima oggetto di ripulsa da parte degli
imprenditori in genere, venivano gradatamente anche se non¶{p. 16}
compiutamente acquisiti. La consultazione superava l’incertezza di contorni e le imprecise
ma cautelative frontiere originarie, e veniva ad assorbire, sotto l’influsso di situazioni
generali, caratteri più aderenti al dinamico corso dei rapporti sindacali. I pericoli di
captazione nella dinamica iniziativa dell’imprenditore si attenuavano, quanto meno, nella
misura in cui la controparte si dimostrava capace di fruire del nuovo equilibrio generale di
forze che si era venuto formando nel frattempo nel paese.
5. L’accento sulla collaborazione come partecipazione
tendenzialmente associativa è reiterato nella prima fase
dell’attività di consultazione. Che essa fosse in realtà una
sovrastruttura ideologica, risulta dallo studio analitico qui contenuto. Negli ultimi anni,
particolarmente nel programma di rilancio del 1965, l’«illusione» è realisticamente
abbandonata. È l’esito costante di tutti i tentativi di congiungere in un tessuto unitario
gli interessi insanabilmente in conflitto
[6]
. È la fine di pressoché tutti i tentativi di superare la logica del conflitto
industriale, che è tipica della società moderna e che d’altronde fornisce a quest’ultima una
potente molla dialettica. Chiunque abbia acquisito lo spirito del mondo d’oggi, che è
caratterizzato da una costante tensione verso l’innovazione, l’invenzione, la riforma, non
può non accettare come positivo questo dato di fatto, che può essere negato solo da
ideologie conservatrici animate da una visione statica, di una società senza fermenti e
senza storia.
Il conflitto è la premessa di fatto necessaria.
Naturalmente, le parti, consce ciascuna del proprio ruolo e dei limiti ad esso connessi,
possono «collaborare» a porre in essere condizioni atte a modificare i contenuti concreti
del conflitto, a facilitarne la soluzione via via che si produce. Tale «collaborazione
conflittuale» può avvalersi di una varietà di strumenti: la consultazione mista della
Bassetti è stato uno dei tanti esistenti o escogitabili. Essa va pertanto valutata in questo
contesto concettuale.
¶{p. 17}