Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/c3
3. La spinta al rinnovamento dell’élite operaia e sindacale: la collaborazione produttivistica
Alle origini, e per un periodo abbastanza lungo,
l’accordo del ’58 apre un dialogo triangolare: «Direzione-Personale-Sindacato», nel
presupposto che l’interlocutore della direzione non può essere unitario perché tra
personale e sindacato non esiste identità reale. L’assenza della CGIL, che a
quell’epoca veniva comunemente considerata l’organizzazione sindacale politicizzata
e demagogica per eccellenza, se poteva tradursi in un vantaggio (per questa, come
per qualunque altra impresa), non spostava il problema. Infatti, le ideologie ‒ e
quelle sindacali non fanno eccezione ‒ hanno una vita propria. Possono essere in
ritardo rispetto alla prassi e i lavoratori rischiano di pensare i loro fini
mediante ideologie superate. L’aspirazione, pertanto, era quella di costringere i
sindacati a rendersi conto che le condotte pratiche degli individui possono cambiare
prima delle idee e, quindi, ad usare un linguaggio aderente alla esperienza
modificata del «personale»: il che aiuta a comprendere perché
l’istituzionalizzazione di un rapporto diretto tra imprenditore e
lavoratori non sia stata impiegata in funzione antisindacale. Il
progetto, come è evidente, è più ambizioso di quello comunemente perseguito dalle
screditate tecniche di human relations. Non si tratta, infatti,
di annullare il ruolo del sindacato, ma di inserirlo nella logica aziendale
massimizzando i benefici da ciò ricavabili e nel contempo minimizzando le tensioni
con le strutture d’autorità preesistenti senza però soffocarle nella misura in cui
il conflitto, per tipo e intensità, può essere convertito in un fatto positivo per
lo stesso funzionamento interno dell’impresa.
Il problema fondamentale da risolvere era perciò
quello di affrontare lo sforzo e il costo di una missione¶{p. 54}
pedagogica tendente a porre le basi culturali minime per avviare, con qualche
probabilità di successo, un dialogo con i lavoratori. Occorre però associare il
sindacato a questa missione: è il modo più diretto per sensibilizzarlo ad un
problema di cui non vede la necessità, benché da esso dipenda il suo «rafforzamento»
[1]
o, qualora ne abbia già (come la CISL) chiara coscienza, per aiutarlo
concretamente nel tentativo di superare concezioni legate a vecchie situazioni
culturali e politiche (di cui la CGIL sarebbe la più compiuta espressione). Sotto
questo profilo, pertanto, giustamente la CM apparirà a un suo esperto (e
spregiudicato) osservatore come «uno strumento che si può parificare ad una scuola
attiva per analfabeti socioculturali»
[2]
, da cui ci si attende la formazione di una moderna «classe dirigente
sindacale intermedia»
[3]
.
Certamente, alle origini questo disegno è appena
delineato. Come in epoca posteriore si ammetterà pubblicamente, «per noi il
problema dell’interlocutore è importantissimo», anzi è «il problema più drammatico»,
a tal segno che all’istanza avanzata dalla CISL di fare oggetto di un riconoscimento
espresso le SAS da parte della Bassetti si opporranno obiezioni di carattere
operativo, e non di principio: i membri della SAS «sono il sottoprodotto del
sindacalismo cislino in azienda o sono il meglio? Cioè, il meglio non è già dentro
nei comitati di CM e nella Cl?»
[4]
. Ma già tra il 1959 e il 1960 si percepisce l’opportunità di organizzare
«corsi di formazione per le maestranze», perché «l’azienda ha tutto da guadagnare
da lavoratori in possesso di una solida coscienza sindacale» (« chi è più cosciente
delle proprie capacità sindacali, cioè nel far valere i propri interessi, è anche
più cosciente nel fare il suo dovere e nel dare¶{p. 55} il suo
contributo all’attività produttivistica»
[5]
) e, per il sindacato, si tratta di «scoprire nuovi elementi per gli
organismi di CM e di prepararli a svolgere efficacemente il loro ruolo»
[6]
. D’altra parte, è innegabile che lo strumento prescelto fin dall’inizio
per suscitare la partecipazione dei lavoratori ai problemi aziendali ‒ il premio di
produzione ‒ era coordinato allo scopo di preparare una élite
operaia a cui i sindacati avrebbero potuto attingere i nuovi quadri. È, infatti,
diffusa l’opinione che «se i lavoratori cominciano a litigare per la divisione di
ciò che si è prodotto, dovranno finire per interessarsi alla produzione»
[7]
(soprattutto se, come in questo caso, la «resa» annuale del premio
supera notevolmente la media del settore a cui appartiene l’azienda) e quindi per
entrare gradualmente a conoscere la logica, i problemi e le tecniche di previsione,
di programmazione e di gestione dell’azienda: il che, a sua volta, finirà col porre
‒ come si avrà agio di costatare in prosieguo di tempo ‒ dei «problemi di
adeguamento non solo della mentalità, ma anche delle tecniche operative e delle
responsabilità degli operatori sindacali»
[8]
. Pertanto, a misura che l’efficienza aziendale penetra nella scala di
valori delle maestranze siccome riconosciuto insostituibile fattore di
miglioramento delle condizioni di lavoro, si provoca una serie di reazioni a catena
nell’àmbito della sub-cultura operaia culminanti, a scadenza più o meno breve, in
una radicale modifica della concezione che il sindacato ha della propria funzione
storica, accompagnata dalla progressiva riduzione dello scarto esistente tra
lavoratori e sindacato. La consultazione, ha detto nel corso di un’intervista un
alto dirigente della Bassetti che partecipò fin dall’inizio all’esperimento,
«esprimeva questa fiducia ed era lo strumento istituzionalizzato del processo di
sviluppo del sindacato verso posizioni
responsabili».¶{p. 56}
Naturalmente, si riconosce che tra gli agenti di
questo processo esiste un rapporto di interazione, per cui non è contraddittorio
predisporre i mezzi idonei affinché il personale sia in grado di sospingere il
sindacato sulla linea di un nuovo tipo di politica rivendicativa ed insieme
attribuire al sindacato un ruolo di «persuasore occulto» ‒
honni soit qui mal y pense ‒ che
l’azienda ha ogni interesse a vedere esercitato e rispettato. L’accettazione di
questo ruolo non è, almeno nei primi tempi, pacifica. Al riguardo, uno degli
episodi più significativi è costituito dal rifiuto della UILT a svolgere, in
collaborazione con la Bassetti, il programma dei corsi di formazione produttivistica
dei lavoratori, finanziato dalla Bassetti e dagli stessi lavoratori mediante una
trattenuta sul premio di produzione
[9]
. Senonché, si tratta di divergenze che devono essere superate o,
comunque, circoscritte in àmbiti definiti poiché ci si rende subito conto che esse
possono giovare solo alla CGIL
[10]
.
«Il personale della G. Bassetti S.A.» è, dunque, il
principale destinatario degli effetti dell’accordo stipulato nel ’58. Se ciò non
esclude che venisse contemporaneamente aperto un dialogo a livello sindacale, è
tuttavia da ritenersi acquisito che, sia per soddisfare l’esigenza di non rompere
troppo bruscamente e nettamente con un recente passato, sia per ragioni di
diffidenza verso il sindacato, a quest’ultimo non è assegnata con univocità
d’intenti una funzione specifica per preparare l’avvento di un «ordine nuovo» in
azienda. Infatti, i problemi oggetto di CM delimitano, sia pure per approssimazioni
successive, una zona nella quale l’azienda evita di misurarsi direttamente con il
sindacato, laddove sono proprio quelli i problemi la cui soluzione implica la
realizzazione del «principio del lavoro congiunto» introdotto dall’accordo del
’58.
Un autorevole rappresentante sindacale che lo
sotto¶{p. 57}scrisse ha ammesso (nel corso di un colloquio privato
concessomi) che l’accordo nasce da «un compromesso tra il paternalismo di ieri e il
sindacalismo di domani»: un compromesso ‒ ha precisato ‒ che avvantaggiava anche i
sindacati in quanto il margine di autonomia lasciato ai lavoratori nell’esecuzione
dell’esperimento consentiva agli stessi di assumere una posizione attiva, impedendo
di sommare passività ‒ nei confronti di Bassetti che aveva preso l’iniziativa ‒ a
passività, nei confronti dei sindacati che l’avevano coonestata. È probabile che si
tratti di una giustificazione ex post, come tale scarsamente
attendibile. Tuttavia, essa sta a dimostrare come, almeno a distanza di tempo, sia
affiorata la percezione che l’accordo del ’58 mirava ‒ oggettivamente ‒ ad
accreditare una nuova «etica del lavoro» per contenere l’azione di quei «poli
concorrenziali di attrazione della lealtà dei lavoratori» che, secondo la
definizione di Wright Mills, sono i sindacati agli occhi
dell’imprenditore.
Ciò apparve chiaro quando ci si accorse che la
promessa di «collaborare» non poteva essere mantenuta esclusivamente in funzione
del premio di produzione, sia perché «non incentivante,
divenuto un fatto normale nell’odierna società, oramai sentito come un diritto»,
sia perché «l’interesse economico non è molla di altri interessi»
[11]
. Allo scopo di ricercare e far scattare questa «molla», «noi il discorso
della CM l’abbiamo fatto un po’ su tutti i fronti, e questo ha fatto confusione.
Infatti non abbiamo chiarito se noi volevamo fare questa CM su contenuti tecnici
(come in effetti l’accordo dice, stabilendo che ci saremmo consultati su problemi
attinenti agli incrementi di produttività); o se invece la volevamo fare in
materia di rapporti umani, di regole di convivenza all’interno dell’azienda (come
pure è scritto nell’accordo, e come di fatto spesso è avvenuto), cioè di
accettabilità umana della logica del lavoro in comune (...). In questa mancanza di
chiarezza intorno agli oggetti della
¶{p. 58} partecipazione può
avvenire di tutto»
[12]
. Può avvenire, come di fatto è avvenuto, che si tenti di controllare e
dirigere i fattori umani al fine di reintegrare la personalità dell’uomo nella sua
figura di lavoratore, in quanto lo richiede la necessità di accrescere l’efficienza
della produzione; che si pretenda di superare l’alienazione del lavoro entro i
limiti dell’alienazione del lavoro, promuovendo un processo motivazionale di
identificazione del lavoratore con la sua azienda, considerata
come un gruppo sociale e, tramite questo, con la società considerata come un tutto;
che si elaborino nuovi e più efficaci simboli per giustificare il potere spettante
all’imprenditore; che si cerchi di stimolare il «desiderio» dei lavoratori di
partecipare alla soluzione dei problemi produttivi, un desiderio di porsi al
servizio dell’organizzazione «nella speranza di influenzarne gli obiettivi per
conformarli più strettamente ai propri»
[13]
; che si tenda, insomma, a vincere «la dolente riluttanza dei dipendenti
a svolgere con impegno spontaneo le loro monotone mansioni», arricchendo il lavoro
«di qualcosa di più di un incentivo economico»
[14]
.
Note
[1] Intervento di Bassetti nella discussione svoltasi nel CA il 20 gennaio 1962.
[2] Intervento di un membro della segreteria della CM nella discussione dell’11 febbraio 1963.
[3] Intervento di Bassetti nelle riunioni del CA del 20 dicembre 1960 e del 20 gennaio 1962.
[4] Intervento di Bassetti nella riunione sindacale precontrattuale del 6 settembre 1965.
[5] Intervento di Bassetti nella riunione del CA del 7 gennaio 1960.
[6] Intervento del rappresentante UILT nella riunione del CA del 20 gennaio 1962.
[7] Tannenbaum, Il sindacato: una nuova società, trad. it., Roma, 1961, p. 158. V. anche n. 2 della Parte II, nota 12.
[8] Seduta del 20 febbraio 1967 del SC dello stabilimento di V.
[9] Verbali delle riunioni del CA del 7 gennaio 1960 e 12 febbraio 1960.
[10] Verbale della riunione del CA del 12 febbraio 1960.
[11] Verbale della Tavola rotonda sindacale interna del 2 marzo 1962, cit.
[12] Intervento di Bassetti nella discussione sul tema La CM, svoltasi in seno al Comitato Direttori (= CD) del 10 dicembre 1962.
[13] A questa componente del sistema motivazionale corrente assegna un rilievo centrale (e, perciò stesso, esagerato) il Galbraith, Il nuovo Stato industriale, cit., pp. 113 ss., 230, 233.
[14] Mills, Colletti bianchi. La classe media americana, trad. it., Torino, 1966, pp. 310-313.