Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c15
Il secondo elemento costitutivo dello scientismo tecnologico si radica sul piano pratico ed è dato dall’organizzazione industriale (cioè dalla razionalizzazione in termini quantitativi) del dominio sulla natura, il quale diventa un processo aperto nel futuro. Ciò comporta un mutamento di senso del lavoro. Nella società industriale il lavoro ha senso solo in una organizzazione, e pertanto «la
¶{p. 419}struttura sociale e l’esistenza umana sono determinate, in tutte le loro ramificazioni, dalla natura del lavoro e dalla sua distribuzione»
[25]
.
Le valenze umanistiche dello scientismo tecnologico
[26]
, i miglioramenti che le sue prodigiose realizzazioni hanno apportato alla condizione umana non possono certo essere negati. Le scoperte delle scienze naturali e le loro applicazioni tecniche hanno alleggerito il lavoro dell’uomo liberandolo in misura crescente dalla fatica
[27]
; hanno enormemente aumentato i beni a sua disposizione, così che lo scientismo tecnologico nelle sue possibilità racchiude un principio di liberazione dell’uomo dal bisogno; hanno reso l’uomo più sicuro sia nei rapporti con la natura (si pensi ai progressi della medicina), sia nei rapporti sociali (si pensi ai moderni sistemi di sicurezza sociale).
Tutto questo l’uomo di chiesa ben sa. A modo di esempio si legga, scegliendo nella letteratura teologica più recente, l’elogio della tecnica tessuto con semplicità dalla penna delicata di Romano Guardini in una delle sue Lettere teologiche ad un amico
[28]
. Nell’enciclica la tecnica è definita «alleata dell’uomo ..., coefficiente fondamentale di progresso economico» (n. 5), ragione di speranza in una vita migliore per milioni di uomini che ancora vivono in condizioni di sottosviluppo (n. 1).
Ma lo scientismo tecnologico contiene anche una valenza negativa. Esso porta lo stimma del suo genio fondatore, che «è un genio che scopre e insieme occulta»
[29]
: ¶{p. 420}l’epistemologia galileiana svela il regno della natura, ma occulta il regno dei valori in quanto non attingibile dalla conoscenza empirica. Perciò lo scientismo tecnologico è aperto alle tesi del relativismo, e in particolare al nichilismo filosofico, il quale nega la possibilità di fondare scientificamente giudizi di valore, per es. enunciati intorno alla giustizia
[30]
. Dal punto di vista logico tali enunciati sono privi di senso, non essendo disponibili criteri di controllo della loro verità o falsità. Vere o false possono essere soltanto le proposizioni fondate su un confronto tra grandezze quantitative, secondo il modello delle proposizioni della fisica. Da questo punto di vista concetti come «dignità umana», «giusto salario», diventano vuoti di senso, mentre acquistano significato solo criteri attinti a valori economici, quali la professionalità, la forza della domanda e dell’offerta sul mercato, ecc. Il nichilismo filosofico e il positivismo scientifico, che del primo è l’espressione sul piano della teoria delle varie scienze (per es. della teoria del diritto), riducono la ragione a pura ragione strumentale: essa è in grado di calcolare, con una precisione e un’efficienza insospettabili nelle epoche precedenti, i mezzi occorrenti per raggiungere un certo fine, ma non è in grado di giudicare sulla bontà e sulla desiderabilità del fine medesimo. La conseguenza è che «i concetti si modificano talmente, che si considera come scopo supremo l’“utile”, l’“utilizzare” stesso»
[31]
. La tecnica (valore-mezzo) tende allora a diventare un valore in sé, e il rapporto di essa con l’uomo rischia di rovesciarsi.
Sono sufficienti questi brevi cenni per mostrare che il nichilismo non solo è l’«avversario istituzionale» del pensiero cristiano, ma più in generale è il contrario di ogni umanesimo. «L’uomo non può sopportare l’atteggiamento di fondo del nichilismo»
[32]
perché repugna alla sua dignità essere considerato esclusivamente come mezzo. È vero pertanto che le discussioni suscitate dall’enciclica nel ¶{p. 421}mondo imprenditoriale hanno messo di fronte due modi diversi di pensiero
[33]
, l’uno fiducioso nella capacità della ragione umana di cogliere le essenze, l’altro attestato sul terreno dell’empirismo e della verificabilità quantitativa. Non accettabile, invece, è l’interpretazione di tale contrapposizione in chiave di conflitto tra antico e moderno. Una simile interpretazione, che qualche commento critico ha pur tentato di accreditare, è indice preoccupante di una immaturità culturale che in altri paesi industrialmente più avanzati, come gli Stati Uniti d’America, è da tempo avvertita come un ostacolo all’acquisizione da parte delle imprese di un’area di consenso più vasta
[34]
.
Certo il pensiero formalizzato della scienza moderna, definito dalle categorie spazio-temporali, è essenziale all’espansione dell’industria e quindi al progresso economico. Questo è un dato di cui la riflessione etico-filosofica sul «moderno» non può non tenere conto perché le lancette dell’orologio non si possono spostare all’indietro. E tenerne conto vuol dire specialmente riconoscere la ragion d’essere, entro certi limiti, anche di un’«etica dei mezzi»
[35]
, cioè di un aspetto della morale determinato dai valori strumentali dell’efficienza e della produttività in coerenza con le indicazioni provenienti dall’analisi economica dei costi e dei benefici. Qualsiasi tentativo di demonizzare la moderna impresa industriale è destinato all’insuccesso, come ha dimostrato, a spese di tutti, l’esperienza dell’ultimo decennio, che ha visto la proliferazione e la rapida consunzione di ideologie e subculture anti-industriali.
Ma il capitalismo industriale deve guardarsi dall’errore di pensarsi esclusivamente come un sistema economico
[36]
, dimenticando che in questo sistema «l’organizzazione ¶{p. 422}del lavoro assurge a problema dell’essere umano»
[37]
. La riduzione alla pura dimensione economica dà spazio alla valenza nichilistica latente nella forma di pensiero in cui l’industrialismo è ambientato, mentre occorre assecondare e rafforzare l’altra valenza, che rende lo scientismo tecnologico disponibile all’umanesimo costruttivo. In questo senso l’industrialismo deve trascendere la visione del mero «economismo» e integrarsi in una dimensione morale-culturale che gli dia «una forza capace di controbilanciare gli effetti distruttivi della ragione formalizzata»
[38]
. Tale forza non può scaturire se non da un recupero dei valori dell’umanesimo e, con essi, di una solida coscienza dei fini. Solo sulla base di questa coscienza il conflitto sindacale può svolgere una funzione positiva (riconosciuta dall’enciclica, n. 20) di mezzo fecondo di confronto tra valutazioni diverse in ordine al «bene della giustizia sociale», senza degenerare in una lotta fine a se stessa o «per eliminare l’avversario».
In questa direzione il documento di Giovanni Paolo II promuove, con nuovo linguaggio alieno da stili dogmatici, un’alleanza dell’umanesimo cristiano con l’umanesimo laico per fronteggiare in comune e solidalmente la crisi della spiritualità europea, che sembra avere perduto quella capacità di riflessione sul senso della vita da cui procedeva l’antica sapienza. Ma le incomprensioni e, talvolta, l’ostilità incontrate dall’enciclica confermano che per superare la forma di pensiero determinata dall’obiettivismo naturalista è necessario, come dice Husserl
[39]
, «un eroismo della ragione».
Note
[25] Jaspers, Origine e senso della storia, Milano, 1982, pp. 128 s.
[27] Questo effetto benefico è antiveduto dal fondatore della filosofia moderna. Cfr. Descartes, Discours de la méthode, I p., in Oeuvres et lettres, Paris, Plèiade, 1953, pp. 128 s.: «les mathématiques ont des inventions très subtiles, et qui peuvent servir ... à facili ter tous les arts et diminuer le travail des hommes». Il beneficio però non è senza un prezzo che, dopo l’avvento della rivoluzione industriale, sarà registrato da Hegel (citato da Lowith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino, 1979, p. 398): la tecnica inganna la natura facendola lavorare per l’uomo, ma «il lavoro che ancora rimane per l’uomo diventa esso stesso meccanico».
[28] Milano, 1979, pp. 44 ss.
[29] Husserl, Crisi delle scienze europee, cit., p. 81.
[30] Cfr. Kriele, Kriterien der Gerechtigkeit, Berlin, 1963, pp. 16 ss.
[32] Jaspers, Origine e senso della storia, p. 155.
[33] Cfr. Mortillaro, in Sole-24 Ore del 14 marzo 1982.
[34] Di «fatale lacuna culturale» parla Novak in Democracy and Mediating Structures, a cura del medesimo, Washington, 1980, p. 184. V. ora Novak, On the Governability of Democracies: the Economic System-The Evangelical Basis of Social Market Economy, in Cristianesimo, secolarizzazione, cit., vol. I, pp. 497 ss. (trad. it. in «Relazioni industriali», 1983, np. 31 ss.).
[35] Hartmann, Etica, vol. I, pp. 19 s., 123 s.
[36] Novak, On the Governability, cit., p. 502. In definitiva è questo l’errore che l’enciclica chiama «dell’economismo». Dovrebbe essere chiaro che l’uso di questo termine è lontano da ogni, pur vaga, intenzione spregiativa della scienza economica.
[37] Jaspers, Origine e senso della storia, cit., p. 126.
[38] Horkheimer, Eclisse della ragione, cit., p. 34.
[39] La crisi delle scienze europee, cit., p. 358.