Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Fino
alla notte del 17 luglio dello stesso anno, quando
la salute venne meno irrimediabilmente: fu
assalito da «una tosse più grave del solito,
buttai con affluenza molta quantità di sangue, fra
il quale vi ci erano molti pezzetti glutinosi,
accrescendovisi la febbre e tutti gli altri sintomi»
[148]
. Ai malori che già lo colsero, tra cui
l’incremento di febbre, si aggiunse il vomito
cruento con espettorazione di materia organica. La
faccenda cominciava a farsi preoccupante. A tal
punto che, l’indomani, al medico de Iorio gli si
parò innanzi una scena ben diversa rispetto a
quelle vissute nel corso delle
¶{p. 64}precedenti puntate. Così
ricorderà: «io già osservai nella sua stanza una
gran quantità di sangue dentro al bacino che
teneva accanto al letto, sopra le tovaglie. Che
anche teneva su del letto, sui lenzuoli, e al
pavimento, che io giudicai poter ascendere a due
libre di sangue, il quale era negro e di una
sostanza quasi corrotta, et addensato»
[149]
. Il professore di medicina, ad ogni
modo, non si fece intimorire e diede ordine di
convocare il barbiere della casa. Fece salassare
Carlo per due volte: dapprima al braccio sinistro
«per far alleviare il dolore che io dicevo di
avere in quella parte del petto; e la seconda al
piede sinistro»
[150]
. La ragione, come sottolineerà lo
stesso medico «è troppo chiara dalla nostra regola
medica, perché prendendo il sangue i meati
superiori si deve divertire per le parti inferiori»
[151]
.
Poi,
lo mise a cura di acqua e conditi. Ecco la
ricetta: «una mistura da prendersela a cocchiaro a
cocchiaro, composta dell’acqua di piantagine, ove
sia sciolto un acinello del nepentes quercetano
coll’aggiunta della pietra ematide viva, e polvere
di coralli rossi, e gileppo di papagno rosso»: una
portata pantagruelica
[152]
. Si trattava di un intruglio simile a
quelli che, dapprima i seguaci di Dioscoride e
Galeno, poi gli iatrochimici del Cinquecento, o i
cosiddetti «professori de’ secreti»,
contempravano, somministravano ai loro pazienti,
suggerivano ai loro avidi lettori
[153]
. Brodaglie a base di polveri
metalliche, ricolme di tritati minerali. Come la
pietra «ematide viva», ossia la magnetite
[154]
; o il «nepentes
¶{p. 65}quercetano»: il narcotico
utilizzato da Joseph Du Chesne (1544-1609) –
paracelsiano de la première
heure – che, con molta probabilità,
traeva il nome dal «nepenthes pharmakon» che una
regina egizia avrebbe porto a Elena per lenire i
suoi dolori: dimenticare
[155]
. Così recitava un passo
dell’Odissea (IV, vv.
219-221).
Più
che lavare il ricordo, però, il principio attivo
di quell’acquetta era vanificato dai continui
rigurgiti di Carlo, che gliela facevano riversare
una volta trangugiata: sul petto, appetto nel
bacile, sulle lenzuola e sul pavimento; ai piedi
del letto. Nonostante ciò, ancora una volta «la
febbre andò cessando»
[156]
. Il medico, allora, pare avesse in
mente un terzo soggiorno per il febbricitante,
finalizzato a far ristagnare l’emorragia. Uno di
quei ricoveri, insomma, a base di aria pulita e
latte di capra. Lo confermava Domenico Messina. E
c’è da credergli dato che, come visto, in quel
periodo viveva gomito a gomito con l’amico e
compagno di studi: «onde il medico pensava che
andandosi totalmente a ristagnare, l’avrebbe
mandato poi di nuovo a mutar aria»
[157]
. Alla fine, però, la proposta fu
lasciata cadere. Il medico, tuttavia, gli concesse
«che fossi la mattina uscito a sentir la messa in
questa chiesa [...] senza darmi licenza di andare
in altro luogo, per non far maggior moto, ed
avendomi proibito qualunque, minima applicazione
di studio»
[158]
. Così il giovane «prosegu[ì] il
sistema di vivere sino al giorno otto di agosto
del medesimo anno prossimo passato millesettecento cinquantadue»
[159]
.¶{p. 66}
5. Il bianco e il rosso. Dell’uovo
Un
uovo. Era tutto il vitto che, la sera dell’8
agosto, «essendo calato al solito con tutta la
comunità nel refettorio», Carlo si apprestava a consumare
[160]
. Il solo pasto che «gli era stato
permesso per cena dal medico»
[161]
. Ma, sul punto di aspirarne l’albume,
sorbirne il tuorlo, i vecchi malori si
ripresentarono:
mi venne tal sconvolgimento di stomaco e di viscere, dolore di petto e di testa, ed affanno con tutti gli altri precedenti sintomi, che mi sentivo soffogare; mandai a prender licenza dal superiore per ritirarmi in camera e, concedutamisi, me ne ritirai con gran stento. Ed ivi giunto immediatamente, ebbi un butto tale di sangue, che sporcai li lenzuoli, il pavimento, e preso anche un bacino per l’osservazione [...] seguitai a buttarne anche gran copia nello stesso vaso, che mi durò circa un mezzo quarto di ora con gran affanno, soffogazione di gola e dolor grande di capo con tosse profonda [162] .
Sconvolto dal vomito cruento e da fitte allo
stomaco, al petto e alla testa, il rintanato
invocava aiuto. Per primo, l’eco dei rantoli
risuonò all’orecchio del padre Giuseppe Maria
Ricci, di anni trentasette: «religioso professo di
quest’ordine de’ Chierici Regolari Minori, sacerdote»
[163]
. Così si presentò in sede di
interrogatorio, lunedì 4 giugno 1753. Fu primo
forse perché, oltre a vantare un fine eloquio –
era «applicato alle prediche, avendo fatto due
quaresimali finora»
[164]
– doveva essere un raffinato uditore:
era addetto all’«esercizio della risoluzione de’
casi morali due volte la settimana in questa communità»
[165]
.
La
sera dell’8 agosto dell’anno precedente, padre
Giuseppe vide il giovane sgattaiolare via dalla
tavolata «colla bocca che teneva colla sua mano
otturata col fazzoletto ¶{p. 67}bianco»
[166]
. La fuga lo insospettì. Più tardi,
ritiratosi anch’egli in cella, «sent[ì] una voce
che chiamava ajuto»
[167]
. Proveniva dal «professorio», ossia
dalla camerata dei secondi novizi, dove Carlo era
andato a riparare. Oltre all’udito recettivo del
padre, altri fattori dovettero giocare a favore
del querulo. Fortuna volle che la porta della
stanza di Giuseppe non fosse stata ancora ammarrata
[168]
. Per il resto, pochi altri avrebbero
potuto udire quei gemiti: gli studenti, al seguito
del «padre prefetto, e col padre lettore – erano
via – per ricreazione in Posillipo» e a quell’ora
non erano ancora rincasati
[169]
.
Ricevuto l’allarme, padre Ricci si precipitò nel
rifugio di de Vivis:
lo ritrovai bocconi, non mi ricordo se sopra il letto o in una sedia, seduto accanto il letto. Che con profonda tosse attualmente buttava sangue dalla bocca, parte liquido e parte in pezzi, tutto color nero in terra e dentro un bacino che anche stava sul pavimento; e ci viddi sporcati dell’istesso sangue li lenzuoli e la coperta del letto, ed il sangue era di tal fetore, che mi pareva insopportabile [170] .
Al
punto che, di lì a poco, il frate svenne: «venni
meno per il puzzore sopra una sedia perché, per
usare carità, volli purgare colla scopa il sangue
buttato sul pavimento»
[171]
. Anche l’atto dello spazzare era un
modo per «moltiplicare meriti spirituali». Come
istruiva un carmelitano scalzo del Seicento: il
chierico «farà un patto con il Signor’Iddio, di
offerire sé stesso a sua divina Maestà tutte le
volte che moverà la scopa»
[172]
.
Prima di perdere i sensi, però, Ricci riuscì ad
allertare il «sotto infermiero» della casa, Carlo
Porcelli: fratello laico di anni cinquantatré. Ai
giudici che, in data 10 marzo dell’anno seguente,
lo interrogarono sulla differenza che intercorre
tra il miracolo, la grazia e la forza naturale,
balbettò: «non so di per
¶{p. 68}meglio spiegarmi su tutti
questi tre punti che mi son stati domandati, non
essendo io uomo letterato, né de’ studi»
[173]
. Era uomo d’azione, però; disposto a
sporcarsi le mani se ce ne fosse stato bisogno
[174]
. Così accadde: all’ordine del
superiore – il «primo infermiero», Giovanni Maria
Pignelver – il sottoposto caracollò per le strade
alla ricerca del primo medico reperibile in zona.
La fortuna gli arrise: quella sera,
«accidentalmente», un professore in medicina era
in visita presso la casa della vicina «signora
principessa di Piedimonte, per curarla»
[175]
.
Il
suo nome era Gaspare Vegliante, di circa
quarant’anni. Era nato a Forino, diocesi di
Salerno, ma esercitava la professione di «Dottore
e Professore di Medicina [...] qui in Napoli da
circa vent’anni»
[176]
. Per il resto, era celibe – una
caratteristica che, come visto, lo accomunava
all’amico di casta, Vincenzo de Iorio
[177]
. All’interrogatorio, svoltosi venerdì
8 giugno 1753, memorò:
essendo stato dal medesimo sotto infermiero chiamato per occorrere colla mia consulta al male attuale del vomito, che detto chierico pativa in quel punto, io, nell’anticamera della medesima signora, gli dissi che si fosse detto infermo salassato nel piede e che ogni poco tempo li facessero bere acqua fresca; e non mi ricordo se l’avessi anche ordinato la mistura silviana, ch’è composta di vari ingredienti astringenti per sedare l’impeto del sangue [178] .
Il
nome di quest’ultimo medicamento si rinviene in
un’opera di qualche anno precedente, i
Consulti medici (1738) di
Niccolò Cirillo, «Professor Primario di Medicina
nella Regia Università di Napoli», che prescriveva
la mistura come astringente contro «lo sputo di
sangue» e raccomandava di «amministra[rla] con
giudizio e da[rla] da tempo in tempo»
[179]
. La fama del medicinale si
protrar
¶{p. 69}rà sino alla fine
del Settecento. Ne dedicherà una voce il medico e
accademico italiano Giovanni Battista Borsieri de
Kanilfeld (1725-1785), nell’opera monumentale, in
cinque volumi, Institutionum medicinae
practicae, quas auditoribus suis
praelegebat (1781-1789). Qui, oltre a
meglio descrivere l’utilità del farmaco –
«comprime il fervore del sangue, e se qualche poco
di sangue coagulato aderisca nelle vescichette
polmonari, si crede dissolversi; si acquetano e si
rimuovono la tosse e gli spasmi» – l’autore ne
riporta la ricetta: «sei oncie di acqua di
piantaggine, mezza oncia di aceto distillato, una
mezza dramma di coralli rossi e di terra
sigillata, due grani di oppio, un’oncia di siroppo
di meconio, della quale suoleva darne di quando a
quando una cucchiajata»
[180]
. Dove si può notare l’impiego del
corallo rosso in polvere, che già il medico de
Iorio prescrisse a Carlo; nonché, al pari
dell’ordinario, il sostituto dottor Vegliante
indusse all’uso dell’acqua fresca e alla pratica
del salasso che, è il caso di riaffermarlo, a poco
avevano giovato in passato. Almeno su lungo
termine.
Note
[148] Ibidem.
[149] Ivi, f. 72r.
[150] Ivi, f. 46v.
[151] Ivi, f. 76r.
[152] Ivi, f. 75v.
[153] L’utilizzo degli stessi metalli, nonché dei minerali, è già riscontrabile nel libro quinto della Materia medica di Dioscoride. Cfr. A. Clericuzio, Chemical Medicine and Paracelsianism in Italy, 1550-1650, in M. Pelling e S. Mandelbrote (a cura di), The Practice of Reform in Health, Medicine, and Science, 1500-2000. Essays for Charles Webster, Aldershot, Ashgate, 2005, pp. 59-79, in particolare p. 65. Sui «professori de’ secreti» cfr. W. Eamon, Science and the Secrets of Nature. Books of Secrets in Medieval and Early Modern Culture, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1996 (1a ed. 1994).
[154] G. Gimma, Della storia naturale delle gemme, delle pietre e di tutti i minerali, ovvero della fisica sotterranea..., 2 voll., vol. I, In Napoli, Nella Stamperia di Gennaro Muzio, erede di Michele Luigi, 1730, p. 422; Istituto di Storia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Firenze, Studi e ricerche, vol. I, Firenze, All’insegna del Giglio, 1981, p. 50.
[155] J. Du Chesne, Le ricchezze della riformata farmacopea..., In Venetia, Appresso li Gueriglij, 1638, p. 219; N. Graniti, Dell’antica, e moderna medicina teorica, e pratica meccanicamente illustrata..., 2 voll., vol. I, cit., p. 3.
[156] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 47r.
[157] Ivi, f. 134r.
[158] Ivi, f. 47r.
[159] Ibidem.
[160] Ibidem.
[161] Ivi, f. 100v.
[162] Ivi, f. 47r.
[163] Ivi, f. 96v.
[164] Ibidem.
[165] Ibidem.
[166] Ivi, f. 100v.
[167] Ibidem.
[168] Ibidem.
[169] Ivi, f. 135v.
[170] Ivi, f. 101r.
[171] Ibidem.
[172] G. di Giesu Maria, Instruttione di novitii composta in lingua latina..., In Roma, Per Giacomo Mascardi, 1612, p. 370.
[173] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 58v.
[174] Ivi, ff. 47r-47v.
[175] Ivi, f. 122v.
[176] Ivi, f. 121v.
[177] De Iorio dichiara di essere «non ammogliato» (ivi, f. 68r).
[178] Ivi, f. 122v.
[179] N. Cirillo, Consulti medici, 3 voll., vol. I, In Napoli, Appresso Novello de Bonis Stampatore Arcivescovile, 1738, p. 145.
[180] G.B. Borsieri, Istituzioni di medicina pratica... recate nell’idioma italiano dal Dottor Raimondo Pellegrini con sue note, Firenze, Presso Sansone Coen Tipografo, 1840, p. 856.