Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Fino alla notte del 17 luglio dello stesso anno, quando la salute venne meno irrimediabilmente: fu assalito da «una tosse più grave del solito, buttai con affluenza molta quantità di sangue, fra il quale vi ci erano molti pezzetti glutinosi, accrescendovisi la febbre e tutti gli altri sintomi» [148]
. Ai malori che già lo colsero, tra cui l’incremento di febbre, si aggiunse il vomito cruento con espettorazione di materia organica. La faccenda cominciava a farsi preoccupante. A tal punto che, l’indomani, al medico de Iorio gli si parò innanzi una scena ben diversa rispetto a quelle vissute nel corso delle
{p. 64}precedenti puntate. Così ricorderà: «io già osservai nella sua stanza una gran quantità di sangue dentro al bacino che teneva accanto al letto, sopra le tovaglie. Che anche teneva su del letto, sui lenzuoli, e al pavimento, che io giudicai poter ascendere a due libre di sangue, il quale era negro e di una sostanza quasi corrotta, et addensato» [149]
. Il professore di medicina, ad ogni modo, non si fece intimorire e diede ordine di convocare il barbiere della casa. Fece salassare Carlo per due volte: dapprima al braccio sinistro «per far alleviare il dolore che io dicevo di avere in quella parte del petto; e la seconda al piede sinistro» [150]
. La ragione, come sottolineerà lo stesso medico «è troppo chiara dalla nostra regola medica, perché prendendo il sangue i meati superiori si deve divertire per le parti inferiori» [151]
.
Poi, lo mise a cura di acqua e conditi. Ecco la ricetta: «una mistura da prendersela a cocchiaro a cocchiaro, composta dell’acqua di piantagine, ove sia sciolto un acinello del nepentes quercetano coll’aggiunta della pietra ematide viva, e polvere di coralli rossi, e gileppo di papagno rosso»: una portata pantagruelica [152]
. Si trattava di un intruglio simile a quelli che, dapprima i seguaci di Dioscoride e Galeno, poi gli iatrochimici del Cinquecento, o i cosiddetti «professori de’ secreti», contempravano, somministravano ai loro pazienti, suggerivano ai loro avidi lettori [153]
. Brodaglie a base di polveri metalliche, ricolme di tritati minerali. Come la pietra «ematide viva», ossia la magnetite [154]
; o il «nepentes {p. 65}quercetano»: il narcotico utilizzato da Joseph Du Chesne (1544-1609) – paracelsiano de la première heure – che, con molta probabilità, traeva il nome dal «nepenthes pharmakon» che una regina egizia avrebbe porto a Elena per lenire i suoi dolori: dimenticare [155]
. Così recitava un passo dell’Odissea (IV, vv. 219-221).
Più che lavare il ricordo, però, il principio attivo di quell’acquetta era vanificato dai continui rigurgiti di Carlo, che gliela facevano riversare una volta trangugiata: sul petto, appetto nel bacile, sulle lenzuola e sul pavimento; ai piedi del letto. Nonostante ciò, ancora una volta «la febbre andò cessando» [156]
. Il medico, allora, pare avesse in mente un terzo soggiorno per il febbricitante, finalizzato a far ristagnare l’emorragia. Uno di quei ricoveri, insomma, a base di aria pulita e latte di capra. Lo confermava Domenico Messina. E c’è da credergli dato che, come visto, in quel periodo viveva gomito a gomito con l’amico e compagno di studi: «onde il medico pensava che andandosi totalmente a ristagnare, l’avrebbe mandato poi di nuovo a mutar aria» [157]
. Alla fine, però, la proposta fu lasciata cadere. Il medico, tuttavia, gli concesse «che fossi la mattina uscito a sentir la messa in questa chiesa [...] senza darmi licenza di andare in altro luogo, per non far maggior moto, ed avendomi proibito qualunque, minima applicazione di studio» [158]
. Così il giovane «prosegu[ì] il sistema di vivere sino al giorno otto di agosto del medesimo anno prossimo passato millesettecento cinquantadue» [159]
.{p. 66}

5. Il bianco e il rosso. Dell’uovo

Un uovo. Era tutto il vitto che, la sera dell’8 agosto, «essendo calato al solito con tutta la comunità nel refettorio», Carlo si apprestava a consumare [160]
. Il solo pasto che «gli era stato permesso per cena dal medico» [161]
. Ma, sul punto di aspirarne l’albume, sorbirne il tuorlo, i vecchi malori si ripresentarono:
mi venne tal sconvolgimento di stomaco e di viscere, dolore di petto e di testa, ed affanno con tutti gli altri precedenti sintomi, che mi sentivo soffogare; mandai a prender licenza dal superiore per ritirarmi in camera e, concedutamisi, me ne ritirai con gran stento. Ed ivi giunto immediatamente, ebbi un butto tale di sangue, che sporcai li lenzuoli, il pavimento, e preso anche un bacino per l’osservazione [...] seguitai a buttarne anche gran copia nello stesso vaso, che mi durò circa un mezzo quarto di ora con gran affanno, soffogazione di gola e dolor grande di capo con tosse profonda [162]
.
Sconvolto dal vomito cruento e da fitte allo stomaco, al petto e alla testa, il rintanato invocava aiuto. Per primo, l’eco dei rantoli risuonò all’orecchio del padre Giuseppe Maria Ricci, di anni trentasette: «religioso professo di quest’ordine de’ Chierici Regolari Minori, sacerdote» [163]
. Così si presentò in sede di interrogatorio, lunedì 4 giugno 1753. Fu primo forse perché, oltre a vantare un fine eloquio – era «applicato alle prediche, avendo fatto due quaresimali finora» [164]
– doveva essere un raffinato uditore: era addetto all’«esercizio della risoluzione de’ casi morali due volte la settimana in questa communità» [165]
.
La sera dell’8 agosto dell’anno precedente, padre Giuseppe vide il giovane sgattaiolare via dalla tavolata «colla bocca che teneva colla sua mano otturata col fazzoletto {p. 67}bianco» [166]
. La fuga lo insospettì. Più tardi, ritiratosi anch’egli in cella, «sent[ì] una voce che chiamava ajuto» [167]
. Proveniva dal «professorio», ossia dalla camerata dei secondi novizi, dove Carlo era andato a riparare. Oltre all’udito recettivo del padre, altri fattori dovettero giocare a favore del querulo. Fortuna volle che la porta della stanza di Giuseppe non fosse stata ancora ammarrata [168]
. Per il resto, pochi altri avrebbero potuto udire quei gemiti: gli studenti, al seguito del «padre prefetto, e col padre lettore – erano via – per ricreazione in Posillipo» e a quell’ora non erano ancora rincasati [169]
.
Ricevuto l’allarme, padre Ricci si precipitò nel rifugio di de Vivis:
lo ritrovai bocconi, non mi ricordo se sopra il letto o in una sedia, seduto accanto il letto. Che con profonda tosse attualmente buttava sangue dalla bocca, parte liquido e parte in pezzi, tutto color nero in terra e dentro un bacino che anche stava sul pavimento; e ci viddi sporcati dell’istesso sangue li lenzuoli e la coperta del letto, ed il sangue era di tal fetore, che mi pareva insopportabile [170]
.
Al punto che, di lì a poco, il frate svenne: «venni meno per il puzzore sopra una sedia perché, per usare carità, volli purgare colla scopa il sangue buttato sul pavimento» [171]
. Anche l’atto dello spazzare era un modo per «moltiplicare meriti spirituali». Come istruiva un carmelitano scalzo del Seicento: il chierico «farà un patto con il Signor’Iddio, di offerire sé stesso a sua divina Maestà tutte le volte che moverà la scopa» [172]
.
Prima di perdere i sensi, però, Ricci riuscì ad allertare il «sotto infermiero» della casa, Carlo Porcelli: fratello laico di anni cinquantatré. Ai giudici che, in data 10 marzo dell’anno seguente, lo interrogarono sulla differenza che intercorre tra il miracolo, la grazia e la forza naturale, balbettò: «non so di per {p. 68}meglio spiegarmi su tutti questi tre punti che mi son stati domandati, non essendo io uomo letterato, né de’ studi» [173]
. Era uomo d’azione, però; disposto a sporcarsi le mani se ce ne fosse stato bisogno [174]
. Così accadde: all’ordine del superiore – il «primo infermiero», Giovanni Maria Pignelver – il sottoposto caracollò per le strade alla ricerca del primo medico reperibile in zona. La fortuna gli arrise: quella sera, «accidentalmente», un professore in medicina era in visita presso la casa della vicina «signora principessa di Piedimonte, per curarla» [175]
.
Il suo nome era Gaspare Vegliante, di circa quarant’anni. Era nato a Forino, diocesi di Salerno, ma esercitava la professione di «Dottore e Professore di Medicina [...] qui in Napoli da circa vent’anni» [176]
. Per il resto, era celibe – una caratteristica che, come visto, lo accomunava all’amico di casta, Vincenzo de Iorio [177]
. All’interrogatorio, svoltosi venerdì 8 giugno 1753, memorò:
essendo stato dal medesimo sotto infermiero chiamato per occorrere colla mia consulta al male attuale del vomito, che detto chierico pativa in quel punto, io, nell’anticamera della medesima signora, gli dissi che si fosse detto infermo salassato nel piede e che ogni poco tempo li facessero bere acqua fresca; e non mi ricordo se l’avessi anche ordinato la mistura silviana, ch’è composta di vari ingredienti astringenti per sedare l’impeto del sangue [178]
.
Il nome di quest’ultimo medicamento si rinviene in un’opera di qualche anno precedente, i Consulti medici (1738) di Niccolò Cirillo, «Professor Primario di Medicina nella Regia Università di Napoli», che prescriveva la mistura come astringente contro «lo sputo di sangue» e raccomandava di «amministra[rla] con giudizio e da[rla] da tempo in tempo» [179]
. La fama del medicinale si protrar
{p. 69}rà sino alla fine del Settecento. Ne dedicherà una voce il medico e accademico italiano Giovanni Battista Borsieri de Kanilfeld (1725-1785), nell’opera monumentale, in cinque volumi, Institutionum medicinae practicae, quas auditoribus suis praelegebat (1781-1789). Qui, oltre a meglio descrivere l’utilità del farmaco – «comprime il fervore del sangue, e se qualche poco di sangue coagulato aderisca nelle vescichette polmonari, si crede dissolversi; si acquetano e si rimuovono la tosse e gli spasmi» – l’autore ne riporta la ricetta: «sei oncie di acqua di piantaggine, mezza oncia di aceto distillato, una mezza dramma di coralli rossi e di terra sigillata, due grani di oppio, un’oncia di siroppo di meconio, della quale suoleva darne di quando a quando una cucchiajata» [180]
. Dove si può notare l’impiego del corallo rosso in polvere, che già il medico de Iorio prescrisse a Carlo; nonché, al pari dell’ordinario, il sostituto dottor Vegliante indusse all’uso dell’acqua fresca e alla pratica del salasso che, è il caso di riaffermarlo, a poco avevano giovato in passato. Almeno su lungo termine.
Note
[148] Ibidem.
[149] Ivi, f. 72r.
[150] Ivi, f. 46v.
[151] Ivi, f. 76r.
[152] Ivi, f. 75v.
[153] L’utilizzo degli stessi metalli, nonché dei minerali, è già riscontrabile nel libro quinto della Materia medica di Dioscoride. Cfr. A. Clericuzio, Chemical Medicine and Paracelsianism in Italy, 1550-1650, in M. Pelling e S. Mandelbrote (a cura di), The Practice of Reform in Health, Medicine, and Science, 1500-2000. Essays for Charles Webster, Aldershot, Ashgate, 2005, pp. 59-79, in particolare p. 65. Sui «professori de’ secreti» cfr. W. Eamon, Science and the Secrets of Nature. Books of Secrets in Medieval and Early Modern Culture, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1996 (1a ed. 1994).
[154] G. Gimma, Della storia naturale delle gemme, delle pietre e di tutti i minerali, ovvero della fisica sotterranea..., 2 voll., vol. I, In Napoli, Nella Stamperia di Gennaro Muzio, erede di Michele Luigi, 1730, p. 422; Istituto di Storia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Firenze, Studi e ricerche, vol. I, Firenze, All’insegna del Giglio, 1981, p. 50.
[155] J. Du Chesne, Le ricchezze della riformata farmacopea..., In Venetia, Appresso li Gueriglij, 1638, p. 219; N. Graniti, Dell’antica, e moderna medicina teorica, e pratica meccanicamente illustrata..., 2 voll., vol. I, cit., p. 3.
[156] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 47r.
[157] Ivi, f. 134r.
[158] Ivi, f. 47r.
[159] Ibidem.
[160] Ibidem.
[161] Ivi, f. 100v.
[162] Ivi, f. 47r.
[163] Ivi, f. 96v.
[164] Ibidem.
[165] Ibidem.
[166] Ivi, f. 100v.
[167] Ibidem.
[168] Ibidem.
[169] Ivi, f. 135v.
[170] Ivi, f. 101r.
[171] Ibidem.
[172] G. di Giesu Maria, Instruttione di novitii composta in lingua latina..., In Roma, Per Giacomo Mascardi, 1612, p. 370.
[173] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 58v.
[174] Ivi, ff. 47r-47v.
[175] Ivi, f. 122v.
[176] Ivi, f. 121v.
[177] De Iorio dichiara di essere «non ammogliato» (ivi, f. 68r).
[178] Ivi, f. 122v.
[179] N. Cirillo, Consulti medici, 3 voll., vol. I, In Napoli, Appresso Novello de Bonis Stampatore Arcivescovile, 1738, p. 145.
[180] G.B. Borsieri, Istituzioni di medicina pratica... recate nell’idioma italiano dal Dottor Raimondo Pellegrini con sue note, Firenze, Presso Sansone Coen Tipografo, 1840, p. 856.