Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Più
genericamente, nelle carte del processo si parlava
di «un casino che noi possediamo unitamente con
una massaria [...] a poco meno di un miglio da qua
distante»; tant’è che Carlo vi si portò lì «a piedi»
[118]
. Con queste parole, descriverà il
luogo del ritiro Domenico Messina, di qualche
¶{p. 59}anno più giovane del
compagno di banchi e di camerata, ma che, al suo
pari, si esercitava «ne’ studii di filosofia». Il
19 giugno 1753, quando si presentò dinanzi
all’altare della cappella dell’Assunta Beata
Vergine Maria per testimoniare, sostenne di essere
«in fine della metafisica», in altre parole al
termine del cursus studiorum
in filosofia
[119]
. In un registro di grande formato,
rinvenuto presso il succitato fondo delle
Corporazioni, e che, tra le
altre cose, censisce il «transito al corso di
filosofia (de transitu ad cursum
philosophicum)», si può leggere che, in
data 22 ottobre 1753 (dies 22 mensis
octobris 1753), fratres
Dominicus Messina e altri fratelli
furono «esaminati in modo corsivo su ogni parte
della filosofia per il passaggio alla teologia
(examinati breve intera philosophia pro
transitu ad theologiam)»
[120]
.
Nei
«tre mesi» in cui Carlo soggiornò a San Gennaro
dei Poveri, più volte, con i compagni al seguito,
l’amico gli fece visita
[121]
. Lì, il malaticcio poteva beneficiare
di un’aria «più sottile e più salubre», come gli
spiegarono, e delle proprietà del latte delle
capre che al tempo, in quelle campagne – dove
oggi, invece, si snodano le strade e i vicoli di
rione Sanità – pascolavano
[122]
.
Il
soggiorno tra i campi e le capre diede i suoi
frutti: «si calmò il male, cioè la febre e la
tosse, ma mi rimase la difficoltà del respiro ed
il battimento del petto, che mi molestava più del
solito quando salivo le scale», ricordò il teste
[123]
. ¶{p. 60}Gli tornò
l’appetito e, dispensato dalla dieta magra a cui,
in un primo momento, il medico lo aveva costretto,
tornò a consumare cibi grassi. Anche nelle
circostanze vietate dalla regola. Dai divieti
«egli ne veniva dispensato, e mangiava latticini
ne’ venerdì, sabati, vigilie, Avvento e
Quaresima», come di sottecchi, e non senza moto
d’invidia, lo sorprendeva il compagno Domenico
Messina, unitamente al coro degli altri studenti
della casa, in preda a borborigmi
[124]
.
Ma,
al principio dell’estate 1751, l’appena rifiorito
ricadde in malattia. A questo giro, però, alcuni
dei sintomi patiti in passato si ripresentarono in
forma accentuata: «ricadei nello stesso male
dell’anno precedente con una circostanza dippiù,
che, come nella prima caduta la febretta era
lenta, in questa recidiva la febre si accresceva
verso il declinare del giorno»
[125]
. Al bussare dello «stesso male
dell’anno precedente» il medico rispose con gli
stessi brodi, le medesime unzioni
[126]
. Così come, tornò a prescrivergli il
consumo di latte ircino. Questa volta, però, «che
dovessi andarlo a prendere in un’aria più grossa,
com’è quella della terra, o sia casa, di Santa
Maria di Capua, dove è un ospizio di questo stesso
nostro ordine», di recente costruzione. Le
cronache narrano che il ricovero cosiddetto di San
Michele Arcangelo fu eretto, assieme alla chiesa,
«a tempo del cardinal Caracciolo circa nel 1719» e
che fosse retto da «quattro padri sacerdoti e un laico»
[127]
. La trasferta trovava giustificazione,
secondo il prefetto Michelangelo Pigna, nel fatto
che un’aria meno leggera era da considerarsi «più
propria a questi mali di petto, e come anche più
propria all’infermo, ch’essendo nativo di Roma,
ivi si respira aria più crassa»
[128]
. Solo che, per beneficiare di una
simile condizione climatica, non era già
sufficiente ¶{p. 61}voltare le
spalle alle mura dell’urbe e peragrare: bisognava
lasciare Napoli. Intraprendere un viaggio. Lungo.
Così, se a San Gennaro de’ Poveri l’infermo si
portò a piedi, a Capua ci andò in calesse «preso
dalla Religione ed a spese della medesima»
[129]
. Non avrebbe potuto fare diversamente
«per la distanza non meno di quattordici miglia,
che vi sono da questa città a quella terra»
[130]
.
Finalmente il viandante ebbe occasione di
rivedere la luce del sole e respirare aria tersa;
non ultimo, di godere di un panorama paradisiaco
lungo il tragitto. Una campagna tutt’intorno che
«dava l’impressione di essere agghindata a festa»
e che, di lì a poco, farà tracimare alla memoria
del Marquis de Sade, in
viaggio per lo Stivale tra il 1776 e il 1777,
alcuni versi baccanali di Virgilio
[131]
.
La via correva spaziosa tra campi di verde grano, simile a un tappeto e già alto una buona spanna. Nei campi erano piantati filari di pioppi, sfoltiti per servir di sostegno alle viti [...]. Un suolo terso, deliziosamente soffice e ben lavorato, viti d’eccezionale altezza e robustezza, coi tralci fluttuanti di pioppo in pioppo a mo’ di reti [132] .
Similmente Goethe, socchiuso l’occhio del
naturalista e dischiuso quello interiore del poeta
– o «del pittore», come ripeterà ammirando Napoli
dal largo di Capo Minerva – di lì a qualche anno
descriverà il paesaggio lungo la via che dalla
pianura di Capua portava alla capitale del Regno
[133]
. Non senza persuadersi: «qui non si
riesce davvero a rimpiangere Roma; confrontata con
questa grande apertura di cielo la capitale del
mondo nella bassura del Tevere appare come un
vecchio convento in posizione sfavorevole»
[134]
. Fuori dai
¶{p. 62}denti, si sincerava: «come
a Roma tutto è estremamente serio, qui tutto
invece è improntato ad allegria e a buon umore»
[135]
. Allora, non è difficile immaginare da
quale benessere poté essere investito il debole
passeggero, prima ancora di raggiungere il
ricovero assegnatogli; lui, che per il maggior
corso della sua, seppur breve, vita – a Roma, come
a Napoli – aveva vissuto quasi esclusivamente
all’ombra e nell’umidità muschiosa di un
monastero.
L’arrivo a Capua si può stimare fosse avvenuto
«tra fine aprile e inizi di maggio» del 1751
[136]
. E, a differenza dello stringato
soggiorno all’ospizio napoletano, pare che, lì, il
due volte ammalato trascorse un intero anno –
ricorderà chi ce lo indirizzò
[137]
; «due mesi circa», affermerà il paziente
[138]
. Un’informazione sviante quest’ultima,
se il compagno di studi, Filippo Maria Ruoti, in
data 6 giugno 1753, testimonierà – corteggiando la
versione del medico – «ci dimorò più mesi»
[139]
. È probabile, allora, che l’ammalato
confondesse i due soggiorni, che invero si
susseguirono a stretto giro. Non è un caso,
infatti, se l’amico, Domenico Messina,
avvicinandosi al computo di Carlo, ricorderà che a
durare «circa tre mesi» fu, invece, il primo
ricovero a San Gennaro de’ Poveri
[140]
.
Come
era prevedibile, anche il secondo soggiorno finì
per giovare allo stato fisico del fraticello. Ne
serberanno il ricordo molti confratelli: lessero
dei progressi della salute di Carlo nelle lettere
che questi spediva loro dal ritiro
[141]
. Guarì del tutto, «alla riserva
solamente di un poco di affanno, che mi rimase, e
di pochissimo dibattimento di petto»
[142]
, rammenterà dinanzi alle autorità il
risanato. Bisognava riconoscerlo: i calcoli di de
Iorio si erano rivelati corretti; vincente il suo
metodo. Sin dall’inizio non aveva avuto troppi
dubbi: ¶{p. 63}«il male era
curabile» – così lo sentì mormorare Domenico
Messina, nel corso di una visita medica
[143]
.
E,
in effetti, de Vivis guarì. Riprese a studiare con
acribia e sostenne una «pubblica conclusione di
filosofia in questa medesima casa», che l’allora
lettore, il padre Giovanni Battista Gomez, fissò
alla fine di maggio 1752
[144]
. L’esame gli avrebbe consentito il
passaggio al terzo anno di corso – in cui, secondo
le Constitutiones, avrebbe
dovuto aggiungersi lo studio della filosofia etica
– propedeutico alla trattazione della metafisica,
solitamente affrontata l’ultimo anno
[145]
. E «il chierico volle ostinatamente
sostenerl[o] – poiché – non voleva comparire pigro»
[146]
. Questo, pare, ammise Carlo dinanzi
all’amico Domenico Messina. Come promesso si
impegnò, anche quando alla vigilia della prova «mi
si rinnovò l’antica febretta congiunta colli
stessi sintomi rimastimi», ricordò l’esaminando
[147]
. Sintomi che, concluso l’esame, si
esacerbarono e lo costrinsero a letto. Ancora una
volta.
Fino
alla notte del 17 luglio dello stesso anno, quando
la salute venne meno irrimediabilmente: fu
assalito da «una tosse più grave del solito,
buttai con affluenza molta quantità di sangue, fra
il quale vi ci erano molti pezzetti glutinosi,
accrescendovisi la febbre e tutti gli altri sintomi»
[148]
. Ai malori che già lo colsero, tra cui
l’incremento di febbre, si aggiunse il vomito
cruento con espettorazione di materia organica. La
faccenda cominciava a farsi preoccupante. A tal
punto che, l’indomani, al medico de Iorio gli si
parò innanzi una scena ben diversa rispetto a
quelle vissute nel corso delle
¶{p. 64}precedenti puntate. Così
ricorderà: «io già osservai nella sua stanza una
gran quantità di sangue dentro al bacino che
teneva accanto al letto, sopra le tovaglie. Che
anche teneva su del letto, sui lenzuoli, e al
pavimento, che io giudicai poter ascendere a due
libre di sangue, il quale era negro e di una
sostanza quasi corrotta, et addensato»
[149]
. Il professore di medicina, ad ogni
modo, non si fece intimorire e diede ordine di
convocare il barbiere della casa. Fece salassare
Carlo per due volte: dapprima al braccio sinistro
«per far alleviare il dolore che io dicevo di
avere in quella parte del petto; e la seconda al
piede sinistro»
[150]
. La ragione, come sottolineerà lo
stesso medico «è troppo chiara dalla nostra regola
medica, perché prendendo il sangue i meati
superiori si deve divertire per le parti inferiori»
[151]
.
Note
[118] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 132v.
[119] Ivi, f. 130r. A grandi linee, la ratio studiorum dei Chierici Regolari Minori pare improntata su quella dei gesuiti. A proposito di un testo, redatto nel 1546 dalla Compagnia di Gesù, per gli studenti di Padova – modello a partire dal quale troveranno sviluppo future variazioni – cfr. P. Gilbert, La preparazione della «Ratio studiorum» e l’insegnamento di filosofia di Benet Perera, in «Quaestio», 14 (2014), pp. 3-30, in particolare p. 9. Per i Chierici cfr. le Constitutiones Clericorum Regularium Minorum, Romae, Typis Angeli Bernabò, 1678, cap. 32, nrr. 1 e 3.
[120] ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3850, f. 90r. Si tratta di un volume manoscritto di grande formato, rilegato con coperta in pergamena, contenente 196 cc. r-v, numerate fino a 170r. Nell’intestazione reca il titolo completo De bono regimine, de expensis, de ordinibus, de transitu ad cursum philosophicum, de confessoribus.
[121] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, ff. 46r e 132v.
[122] Ivi, f. 50r.
[123] Ivi, f. 46r.
[124] Ivi, f. 133r.
[125] Ivi, f. 46r.
[126] Ibidem.
[127] Ibidem; F. Granata, Storia sacra della chiesa metropolitana di Capua, 2 voll., vol. II, In Napoli, Nella Stamperia Simoniana, 1766, p. 50. Il riferimento è al cardinale Niccolò Caracciolo (1658-1728), discendente da un ramo dei duchi di Melfi. Fu arcivescovo metropolita di Capua dal 1703 al 1728 e ottenne la nomina cardinalizia nel 1715 (ivi, pp. 175-177).
[128] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 212r.
[129] Ivi, f. 51r.
[130] Ivi, f. 72r.
[131] D.A. de Sade, Journey to Italy, a cura di J.A. Steintrager, Toronto, University of Toronto Press, 2020, p. 324, n. 2; R. Cioffi, Due francesi in viaggio a Napoli. L’Abbé Jérôme Richard e il Marquis de Sade nella Cappella Sansevero, in Id. et al. (a cura di), La Campania e il Grand Tour. Immagini, luoghi e racconti di viaggio tra Settecento e Ottocento, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2015, pp. 329-340.
[132] J.W. Goethe, Viaggio in Italia, cit., p. 203.
[133] Ivi, p. 351.
[134] Ivi, p. 209.
[135] Ivi, p. 211.
[136] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 71r.
[137] Ibidem.
[138] Ivi, ff. 46r-46v.
[139] Ivi, f. 112v.
[140] Ivi, f. 132v.
[141] Riporta il lettore di filosofia Giovanni Battista Gomez: «egli di là scrisse a’ molti religiosi, fra quali anche io n’ebbi sue lettere», ivi, f. 199r.
[142] Ivi, f. 46v.
[143] Ivi, f. 133r.
[144] Ivi, f. 46v.
[145] Le Constitutiones Clericorum Regularium Minorum, cit., XXXII, 3 sostengono: «il corso di logica e filosofia dovrebbe essere di tre anni, o anche di quattro, secondo l’uso delle regioni». Presso la Pietrasanta la durata del corso doveva essere di quattro anni se Giovanni Maria Pignelver, primo infermiere e lettore di teologia, relativamente a quanto accadde dopo l’agosto del 1752, riferì: «[Carlo] si portò così bene, come ho di sopra deposto, che meritò il passaggio allo studio del quarto anno di filosofia», ivi, f. 93r.
[146] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 133v.
[147] Ivi, f. 46v.
[148] Ibidem.
[149] Ivi, f. 72r.
[150] Ivi, f. 46v.
[151] Ivi, f. 76r.