Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Più genericamente, nelle carte del processo si parlava di «un casino che noi possediamo unitamente con una massaria [...] a poco meno di un miglio da qua distante»; tant’è che Carlo vi si portò lì «a piedi» [118]
. Con queste parole, descriverà il luogo del ritiro Domenico Messina, di qualche
{p. 59}anno più giovane del compagno di banchi e di camerata, ma che, al suo pari, si esercitava «ne’ studii di filosofia». Il 19 giugno 1753, quando si presentò dinanzi all’altare della cappella dell’Assunta Beata Vergine Maria per testimoniare, sostenne di essere «in fine della metafisica», in altre parole al termine del cursus studiorum in filosofia [119]
. In un registro di grande formato, rinvenuto presso il succitato fondo delle Corporazioni, e che, tra le altre cose, censisce il «transito al corso di filosofia (de transitu ad cursum philosophicum)», si può leggere che, in data 22 ottobre 1753 (dies 22 mensis octobris 1753), fratres Dominicus Messina e altri fratelli furono «esaminati in modo corsivo su ogni parte della filosofia per il passaggio alla teologia (examinati breve intera philosophia pro transitu ad theologiam [120]
.
Nei «tre mesi» in cui Carlo soggiornò a San Gennaro dei Poveri, più volte, con i compagni al seguito, l’amico gli fece visita [121]
. Lì, il malaticcio poteva beneficiare di un’aria «più sottile e più salubre», come gli spiegarono, e delle proprietà del latte delle capre che al tempo, in quelle campagne – dove oggi, invece, si snodano le strade e i vicoli di rione Sanità – pascolavano [122]
.
Il soggiorno tra i campi e le capre diede i suoi frutti: «si calmò il male, cioè la febre e la tosse, ma mi rimase la difficoltà del respiro ed il battimento del petto, che mi molestava più del solito quando salivo le scale», ricordò il teste [123]
. {p. 60}Gli tornò l’appetito e, dispensato dalla dieta magra a cui, in un primo momento, il medico lo aveva costretto, tornò a consumare cibi grassi. Anche nelle circostanze vietate dalla regola. Dai divieti «egli ne veniva dispensato, e mangiava latticini ne’ venerdì, sabati, vigilie, Avvento e Quaresima», come di sottecchi, e non senza moto d’invidia, lo sorprendeva il compagno Domenico Messina, unitamente al coro degli altri studenti della casa, in preda a borborigmi [124]
.
Ma, al principio dell’estate 1751, l’appena rifiorito ricadde in malattia. A questo giro, però, alcuni dei sintomi patiti in passato si ripresentarono in forma accentuata: «ricadei nello stesso male dell’anno precedente con una circostanza dippiù, che, come nella prima caduta la febretta era lenta, in questa recidiva la febre si accresceva verso il declinare del giorno» [125]
. Al bussare dello «stesso male dell’anno precedente» il medico rispose con gli stessi brodi, le medesime unzioni [126]
. Così come, tornò a prescrivergli il consumo di latte ircino. Questa volta, però, «che dovessi andarlo a prendere in un’aria più grossa, com’è quella della terra, o sia casa, di Santa Maria di Capua, dove è un ospizio di questo stesso nostro ordine», di recente costruzione. Le cronache narrano che il ricovero cosiddetto di San Michele Arcangelo fu eretto, assieme alla chiesa, «a tempo del cardinal Caracciolo circa nel 1719» e che fosse retto da «quattro padri sacerdoti e un laico» [127]
. La trasferta trovava giustificazione, secondo il prefetto Michelangelo Pigna, nel fatto che un’aria meno leggera era da considerarsi «più propria a questi mali di petto, e come anche più propria all’infermo, ch’essendo nativo di Roma, ivi si respira aria più crassa» [128]
. Solo che, per beneficiare di una simile condizione climatica, non era già sufficiente {p. 61}voltare le spalle alle mura dell’urbe e peragrare: bisognava lasciare Napoli. Intraprendere un viaggio. Lungo. Così, se a San Gennaro de’ Poveri l’infermo si portò a piedi, a Capua ci andò in calesse «preso dalla Religione ed a spese della medesima» [129]
. Non avrebbe potuto fare diversamente «per la distanza non meno di quattordici miglia, che vi sono da questa città a quella terra» [130]
.
Finalmente il viandante ebbe occasione di rivedere la luce del sole e respirare aria tersa; non ultimo, di godere di un panorama paradisiaco lungo il tragitto. Una campagna tutt’intorno che «dava l’impressione di essere agghindata a festa» e che, di lì a poco, farà tracimare alla memoria del Marquis de Sade, in viaggio per lo Stivale tra il 1776 e il 1777, alcuni versi baccanali di Virgilio [131]
.
La via correva spaziosa tra campi di verde grano, simile a un tappeto e già alto una buona spanna. Nei campi erano piantati filari di pioppi, sfoltiti per servir di sostegno alle viti [...]. Un suolo terso, deliziosamente soffice e ben lavorato, viti d’eccezionale altezza e robustezza, coi tralci fluttuanti di pioppo in pioppo a mo’ di reti [132]
.
Similmente Goethe, socchiuso l’occhio del naturalista e dischiuso quello interiore del poeta – o «del pittore», come ripeterà ammirando Napoli dal largo di Capo Minerva – di lì a qualche anno descriverà il paesaggio lungo la via che dalla pianura di Capua portava alla capitale del Regno [133]
. Non senza persuadersi: «qui non si riesce davvero a rimpiangere Roma; confrontata con questa grande apertura di cielo la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavorevole» [134]
. Fuori dai {p. 62}denti, si sincerava: «come a Roma tutto è estremamente serio, qui tutto invece è improntato ad allegria e a buon umore» [135]
. Allora, non è difficile immaginare da quale benessere poté essere investito il debole passeggero, prima ancora di raggiungere il ricovero assegnatogli; lui, che per il maggior corso della sua, seppur breve, vita – a Roma, come a Napoli – aveva vissuto quasi esclusivamente all’ombra e nell’umidità muschiosa di un monastero.
L’arrivo a Capua si può stimare fosse avvenuto «tra fine aprile e inizi di maggio» del 1751 [136]
. E, a differenza dello stringato soggiorno all’ospizio napoletano, pare che, lì, il due volte ammalato trascorse un intero anno – ricorderà chi ce lo indirizzò [137]
; «due mesi circa», affermerà il paziente [138]
. Un’informazione sviante quest’ultima, se il compagno di studi, Filippo Maria Ruoti, in data 6 giugno 1753, testimonierà – corteggiando la versione del medico – «ci dimorò più mesi» [139]
. È probabile, allora, che l’ammalato confondesse i due soggiorni, che invero si susseguirono a stretto giro. Non è un caso, infatti, se l’amico, Domenico Messina, avvicinandosi al computo di Carlo, ricorderà che a durare «circa tre mesi» fu, invece, il primo ricovero a San Gennaro de’ Poveri [140]
.
Come era prevedibile, anche il secondo soggiorno finì per giovare allo stato fisico del fraticello. Ne serberanno il ricordo molti confratelli: lessero dei progressi della salute di Carlo nelle lettere che questi spediva loro dal ritiro [141]
. Guarì del tutto, «alla riserva solamente di un poco di affanno, che mi rimase, e di pochissimo dibattimento di petto» [142]
, rammenterà dinanzi alle autorità il risanato. Bisognava riconoscerlo: i calcoli di de Iorio si erano rivelati corretti; vincente il suo metodo. Sin dall’inizio non aveva avuto troppi dubbi: {p. 63}«il male era curabile» – così lo sentì mormorare Domenico Messina, nel corso di una visita medica [143]
.
E, in effetti, de Vivis guarì. Riprese a studiare con acribia e sostenne una «pubblica conclusione di filosofia in questa medesima casa», che l’allora lettore, il padre Giovanni Battista Gomez, fissò alla fine di maggio 1752 [144]
. L’esame gli avrebbe consentito il passaggio al terzo anno di corso – in cui, secondo le Constitutiones, avrebbe dovuto aggiungersi lo studio della filosofia etica – propedeutico alla trattazione della metafisica, solitamente affrontata l’ultimo anno [145]
. E «il chierico volle ostinatamente sostenerl[o] – poiché – non voleva comparire pigro» [146]
. Questo, pare, ammise Carlo dinanzi all’amico Domenico Messina. Come promesso si impegnò, anche quando alla vigilia della prova «mi si rinnovò l’antica febretta congiunta colli stessi sintomi rimastimi», ricordò l’esaminando [147]
. Sintomi che, concluso l’esame, si esacerbarono e lo costrinsero a letto. Ancora una volta.
Fino alla notte del 17 luglio dello stesso anno, quando la salute venne meno irrimediabilmente: fu assalito da «una tosse più grave del solito, buttai con affluenza molta quantità di sangue, fra il quale vi ci erano molti pezzetti glutinosi, accrescendovisi la febbre e tutti gli altri sintomi» [148]
. Ai malori che già lo colsero, tra cui l’incremento di febbre, si aggiunse il vomito cruento con espettorazione di materia organica. La faccenda cominciava a farsi preoccupante. A tal punto che, l’indomani, al medico de Iorio gli si parò innanzi una scena ben diversa rispetto a quelle vissute nel corso delle
{p. 64}precedenti puntate. Così ricorderà: «io già osservai nella sua stanza una gran quantità di sangue dentro al bacino che teneva accanto al letto, sopra le tovaglie. Che anche teneva su del letto, sui lenzuoli, e al pavimento, che io giudicai poter ascendere a due libre di sangue, il quale era negro e di una sostanza quasi corrotta, et addensato» [149]
. Il professore di medicina, ad ogni modo, non si fece intimorire e diede ordine di convocare il barbiere della casa. Fece salassare Carlo per due volte: dapprima al braccio sinistro «per far alleviare il dolore che io dicevo di avere in quella parte del petto; e la seconda al piede sinistro» [150]
. La ragione, come sottolineerà lo stesso medico «è troppo chiara dalla nostra regola medica, perché prendendo il sangue i meati superiori si deve divertire per le parti inferiori» [151]
.
Note
[118] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 132v.
[119] Ivi, f. 130r. A grandi linee, la ratio studiorum dei Chierici Regolari Minori pare improntata su quella dei gesuiti. A proposito di un testo, redatto nel 1546 dalla Compagnia di Gesù, per gli studenti di Padova – modello a partire dal quale troveranno sviluppo future variazioni – cfr. P. Gilbert, La preparazione della «Ratio studiorum» e l’insegnamento di filosofia di Benet Perera, in «Quaestio», 14 (2014), pp. 3-30, in particolare p. 9. Per i Chierici cfr. le Constitutiones Clericorum Regularium Minorum, Romae, Typis Angeli Bernabò, 1678, cap. 32, nrr. 1 e 3.
[120] ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3850, f. 90r. Si tratta di un volume manoscritto di grande formato, rilegato con coperta in pergamena, contenente 196 cc. r-v, numerate fino a 170r. Nell’intestazione reca il titolo completo De bono regimine, de expensis, de ordinibus, de transitu ad cursum philosophicum, de confessoribus.
[121] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, ff. 46r e 132v.
[122] Ivi, f. 50r.
[123] Ivi, f. 46r.
[124] Ivi, f. 133r.
[125] Ivi, f. 46r.
[126] Ibidem.
[127] Ibidem; F. Granata, Storia sacra della chiesa metropolitana di Capua, 2 voll., vol. II, In Napoli, Nella Stamperia Simoniana, 1766, p. 50. Il riferimento è al cardinale Niccolò Caracciolo (1658-1728), discendente da un ramo dei duchi di Melfi. Fu arcivescovo metropolita di Capua dal 1703 al 1728 e ottenne la nomina cardinalizia nel 1715 (ivi, pp. 175-177).
[128] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 212r.
[129] Ivi, f. 51r.
[130] Ivi, f. 72r.
[131] D.A. de Sade, Journey to Italy, a cura di J.A. Steintrager, Toronto, University of Toronto Press, 2020, p. 324, n. 2; R. Cioffi, Due francesi in viaggio a Napoli. L’Abbé Jérôme Richard e il Marquis de Sade nella Cappella Sansevero, in Id. et al. (a cura di), La Campania e il Grand Tour. Immagini, luoghi e racconti di viaggio tra Settecento e Ottocento, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2015, pp. 329-340.
[132] J.W. Goethe, Viaggio in Italia, cit., p. 203.
[133] Ivi, p. 351.
[134] Ivi, p. 209.
[135] Ivi, p. 211.
[136] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 71r.
[137] Ibidem.
[138] Ivi, ff. 46r-46v.
[139] Ivi, f. 112v.
[140] Ivi, f. 132v.
[141] Riporta il lettore di filosofia Giovanni Battista Gomez: «egli di là scrisse a’ molti religiosi, fra quali anche io n’ebbi sue lettere», ivi, f. 199r.
[142] Ivi, f. 46v.
[143] Ivi, f. 133r.
[144] Ivi, f. 46v.
[145] Le Constitutiones Clericorum Regularium Minorum, cit., XXXII, 3 sostengono: «il corso di logica e filosofia dovrebbe essere di tre anni, o anche di quattro, secondo l’uso delle regioni». Presso la Pietrasanta la durata del corso doveva essere di quattro anni se Giovanni Maria Pignelver, primo infermiere e lettore di teologia, relativamente a quanto accadde dopo l’agosto del 1752, riferì: «[Carlo] si portò così bene, come ho di sopra deposto, che meritò il passaggio allo studio del quarto anno di filosofia», ivi, f. 93r.
[146] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 133v.
[147] Ivi, f. 46v.
[148] Ibidem.
[149] Ivi, f. 72r.
[150] Ivi, f. 46v.
[151] Ivi, f. 76r.