Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Quando, giovedì 8 marzo 1753, il giovane
raggiunse la Pietrasanta, erano circa le consuete
«ore venti [3 PM]»
[86]
. La sua voce prese a riecheggiare
nella cappella sub titulo Assumptionis
Beatae Mariae Virginis, nicchiata in
una delle navate della chiesa
[87]
. Dinanzi al teste, «d’età di anni
ventidue» – specificherà una nota a margine di
Cristoforo de Acampora, secondo notaio
(adjunctus)
[88]
– sedevano i giudici:
¶{p. 54}Costantino Vigilante
(1685-1754), vescovo di Caiazzo dal 1727 e
confessore del re di Spagna Carlo III di Borbone,
sovrano sul trono del Regno di Napoli al tempo del processo
[89]
; Francesco de Novellis (1695-1760),
dal 1738 vescovo della diocesi di Sarno, in
provincia di Salerno
[90]
. E, poi, il subpromotore della fede,
Ambrosio Scaramuzza. Completava la commissione il
notaio Giuseppe Cinnarelli, attuario della causa e
archivista della Curia arcivescovile di Napoli
[91]
.
L’ordine del giorno prevedeva che i testimoni
fossero: «esaminati
(examinentur) con
l’assistenza del subpromotore della fede, e non
altrimenti (cum assistentia
subpromotorii Fidei, et non alias)
[...] prima sul questionario sottoscritto
(prima super infrascriptus
interrogatorii) e dopo sugli articoli
di fede (deinde super articulii
fidelites)»
[92]
. In ginocchio e con la mano destra sui
Vangeli, il teste ripeté il giuramento:
mi corre di dire la verità su quel che sarò domandato, precisamente in una materia così grave, qual è quella che mi si dice circa la canonizzazione e beatificazione de’ santi, ch’è la più importante della nostra santa e vera Religione Cattolica [93] .
4. La capra e il latte
«Racconterò per ordine, sin dal principio,
l’incominciamento della mia infermità; il suo
progresso, ed il suo fine, con tutte le
circostanze richieste»
[95]
. Esordì Carlo. Poi, si lanciò in un
resoconto lungo e dettagliato, per soddisfare
l’undicesima interrogazione dei giudici
(juxta 11): «viene chiesto
inoltre come ebbe inizio la sua malattia, e a
quali dolori e sintomi era associata, esaminandoli
separatamente, e spiegando pubblicamente ciascuna
circostanza, insieme alla causa della sua conoscenza»
[96]
.
«Di
complessione debole, e gracile, e di mal colore»
il fraticello lo era già prima di vestire i panni
da caracciolino, all’età di quindici anni, nella
casa romana di San Lorenzo in Lucina
[97]
. Era «a questo fine» che fu inviato a
Napoli, il 13 dicembre del 1748, nel giorno di
Santa Lucia: per godere di un clima più
favorevole, meno umido, farà capire Michelangelo
Pigna che, nelle stanze e per i corridoi della
Pietrasanta, di Carlo fu l’ombra
[98]
. Era, infatti, incaricato della
«prefettura de’ giovani studenti professi»
[99]
. A distanza di anni, però, nel 1762,
in occasione del processo che si svolse a
Camerino, l’ultimo dei tre a cui prese parte de
Vivis, quest’ultimo riformulerà: «sono stato
mandato dal mio padre generale a studiare la
filosofia nella nostra casa di Santa Maria
Maggiore di Napoli»
[100]
. Sebbene il teste avesse ormai «anni
trenta in circa» e diverso tempo fosse passato dal
soggiorno alla Pietrasanta, i suoi ricordi non
¶{p. 56}sembravano aver perso brillantezza
[101]
. Tant’è che, interrogato sulla data
del suo trasferimento a Napoli, dopo un iniziale
tentennamento, formulò con maggiore accuratezza:
«giunsi il giorno di Santa Lucia, se non erro
dell’anno mille settecento quarantotto»
[102]
. Così come, con eguale – se non
maggiore – meticolosità, rimembrò il giorno e
l’anno in cui rientrò in pianta stabile a Roma:
«il ventinove marzo millesettecento cinquantatré,
prima della quale [data] fui io in detto processo esaminato»
[103]
. Non si può escludere che, in entrambe
le circostanze, il teste riferisse il vero; e che
ambedue i motivi, congiuntamente, decisero il suo
spostamento nella città partenopea: studiare la
filosofia in un clima più mite
[104]
.
Nonostante tutto, il nuovo scenario, marittimo e
vulcanico, così come l’aria sottile e salubre
della capitale regnicola, non portarono alcun
giovamento alla salute del nuovo arrivato. «Venne
acciaccoso da Roma»
[105]
– sempre Pigna – e «continuai nella
stessa mia gracilità», confermò il professo
[106]
. Anzi, di lì a un anno, le condizioni
fisiche di Carlo si aggravarono. Tanto che si
ritrovò:
nel mese di marzo del millesettecento cinquanta sorpreso da un gravissimo dolor di petto, cagionato da un catarro con gran difficoltà di respiro, tosse, e pulsazione grande nel petto, che mi avanzava molto più nel salire che io facevo per le scale, anche essendo vessato da una picciola febbre con qualche espurgazione rara però, e picciola, di sangue di bocca nell’atto del tossire [107] .
Marzo 1750: catarro, fitte al petto e
tachicardia; difficoltà respiratoria e tosse con
espettorazione, sebbene contenuta, di
¶{p. 57}sangue. Febbricola. Questi
i primi sintomi. Il preposito della casa,
allarmato, convocò il medico ordinario
[108]
. Si chiamava Vincenzo de Iorio. Stando
al ricordo di Carlo, ora piuttosto vago, il
professore «prima attese a curarmi con alcuni
brodi medicati, a me ignoti, con unzioni, anche a
me ignote, nel petto»
[109]
. Più preciso, a tal proposito, era il
terzo punto del resoconto del miracolo allegato
alla documentazione del processo: «uso frequente
de’ rimedi anodini – analgesici, quindi – e
pettorali con brodi medicati»
[110]
. Tuttavia, com’era da aspettarsi, fu
il medico a consegnare ai giudici una lista
dettagliata dei medicamenti che sottopose al
paziente: «olio di mandorle dolci, unture di olio
di mandorle, sperma di balena, unguento d’altea,
ed altre simili unzioni pettorali, vi fu anche il
gileppo della tusillagine, diacordion liquido, o’
sia di papavero bianco, come anche la manna per
lubricare il corpo, l’uso del latte per mesi,
brodi medicati di china, salsa e corteccia di
legno santo»
[111]
. Insomma, gran parte del campionario
farmaceutico zoo- e fito-alchemico di consolidata
tradizione.
Nonostante tutto, accortosi della pertinacia dei
sintomi, il medico ordinario spedì il fraticello
«nella massaria di questa medesima casa, sopra San
Gennaro dei Poveri, nel sobborgo di questa città»
[112]
. Prima della peste del 1656, il sito,
che sorgeva sulle catacombe che prendevano il nome
dal santo protettore di Napoli, doveva avere il
«carattere di una “cittadella sacra”», per
«l’impetuoso sviluppo della zona sotto il profilo religioso»
[113]
. Sebbene, al tempo di Carlo de Vivis,
il sobborgo – ospedale annesso – godeva ormai
¶{p. 58}di «gestione e governo laicali»
[114]
. A dispetto di ciò, nel vallone
extra moenia, i Chierici
Regolari Minori continuarono a gestire una
dipendenza. È possibile si trattasse del
cosiddetto «Casino di San Gennaro», oggi descritto
dalla Guida della collina di Capodimonte
come: «un fabbricato di origini
settecentesche [...] era una vera e propria
masseria dove si coltivavano fave, granturco e uva»
[115]
. E il fatto che «alla fine
dell’Ottocento, la struttura era nota con il
titolo di Case di San Francesco» potrebbe
costituire un ulteriore indizio di corrispondenza
– sebbene la guida riconduca il nome ai
«cappuccini del vicino eremo [che] fino alla metà
del secolo la gestivano»
[116]
. Inoltre, un fascicolo che reca sulla
coperta il titolo Notamenti
degl’istromenti stipulati da Santa Maria Maggiore
de’ Chierici Regolari Minori dal 1700 al
17[...], attesta che, a partire dal 1°
giugno 1751, «Carlo e Vincenzo Balsamo, padre e
figlio del Casale dell’Arenella, si pigliorono in
affitto la parte di sopra e di mezzo della
masseria di detto Monastero, sita a San Gennaro
extra moenia» per «tre anni continui» e «alla
ragione di 240 [ducati] l’anno». Questo, assieme
ad altri donativi, i cui atti sono conservati nel
fondo Corporazioni religiose
soppresse dell’Archivio di Stato di
Napoli, rende nota la spiccata vena
imprenditoriale dell’ordine; la cui regola
imponeva sì di rinunciare a qualsivoglia carica,
meno, evidentemente, di far fruttare i propri capitali
[117]
.
Più
genericamente, nelle carte del processo si parlava
di «un casino che noi possediamo unitamente con
una massaria [...] a poco meno di un miglio da qua
distante»; tant’è che Carlo vi si portò lì «a piedi»
[118]
. Con queste parole, descriverà il
luogo del ritiro Domenico Messina, di qualche
¶{p. 59}anno più giovane del
compagno di banchi e di camerata, ma che, al suo
pari, si esercitava «ne’ studii di filosofia». Il
19 giugno 1753, quando si presentò dinanzi
all’altare della cappella dell’Assunta Beata
Vergine Maria per testimoniare, sostenne di essere
«in fine della metafisica», in altre parole al
termine del cursus studiorum
in filosofia
[119]
. In un registro di grande formato,
rinvenuto presso il succitato fondo delle
Corporazioni, e che, tra le
altre cose, censisce il «transito al corso di
filosofia (de transitu ad cursum
philosophicum)», si può leggere che, in
data 22 ottobre 1753 (dies 22 mensis
octobris 1753), fratres
Dominicus Messina e altri fratelli
furono «esaminati in modo corsivo su ogni parte
della filosofia per il passaggio alla teologia
(examinati breve intera philosophia pro
transitu ad theologiam)»
[120]
.
Note
[86] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 42v.
[87] Ibidem.
[88] Ivi, f. 44r. La prima attestazione utile che si è riusciti a rintracciare la si trova in una Responsio ad Animadversiones, in Francisci De Hieronymo sacerdotis professi Societatis Jesu. Positio super dubio..., Romae, Ex Typographia Reverendae Camerae Apostolicae, 1767, p. 9. Nel documento – con molta probabilità, sottoscritto anni prima della pubblicazione – Cristoforo d’Acampora si firma: «Notaro apostolico, e di questa [...] Curia Arcivescovile di Napoli».
[89] G. Cito e N. Amenta, Vita di Niccolò Amenta detto fra gli Arcadi Pisandro Antiniano scritta dall’abate signor don Gioseppe Cito detto fra gli stessi Panfilo Teccaleio. All’Illustriss. E Reverendiss. Signore Monsignor Costantino Vigilante vescovo di Caiazza, In Napoli, Nella stamperia di Gennario Muzio, 1728.
[90] Cfr. Notizie per l’anno 1738..., In Roma, Nella Stamperia del Chracas, presso S. Marco al Corso, 1738, p. 146; G. Normandia, Notizie storiche ed industriali della città di Sarno, In Napoli, Dalla Stamperia del Vaglio, 1851, p. 185.
[91] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 58v.
[92] Ivi, f. 239r.
[93] Ivi, f. 44r.
[94] I punti dell’interrogatorio che riguardano il suo caso sono 29. Cfr. ivi, ff. 239r-245r.
[95] Ivi, f. 45v.
[96] Ivi, f. 240v: «praetera interrogatur quale aegritudinis suae fuerit initium, et quibus ac doloribus, et simptomatibus ea associata extiterit, distinctae recensendo, atque explicando omnes et singulas coram circustantias, una cum scientiae suae causa».
[97] Ivi, f. 46r: «che sono in oggi sette anni in Roma».
[98] Ivi, f. 210v.
[99] Ivi, f. 208v.
[100] AAV, Cause dei Santi, Processus 1898, f. 56r. L’unità archivistica si presenta in forma di fascicoletti tenuti assieme da spago. A differenza degli altri faldoni è assente la coperta in pergamena. I fogli seguono la numerazione 1r-113r.
[101] Ivi, f. 55r.
[102] Ivi, f. 56r.
[103] Ivi, f. 58v.
[104] La salubrità dell’aria come rimedio medico torna spesso nella letteratura ippocratica di età moderna. Per la Campania, cfr. M. Conforti, Medicina sotto il vulcano. Corpi e salute a Napoli in età moderna, Milano, Editrice Bibliografica, 2021.
[105] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 210v.
[106] Ivi, f. 46r.
[107] Ibidem.
[108] Ibidem.
[109] Ibidem.
[110] Ivi, f. 18r.
[111] BNN, Chiesa cattolica, Congregazione dei Riti, PSD, Sala Farnese 48. H 45, pp. 17-18 (d’ora in avanti si riporterà il titolo del testo abbreviato).
[112] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 46r.
[113] M. Rosa, L’onda che ritorna: interno ed esterno sacro nella Napoli del ’600, in S. Boesch Gajano e L. Scaraffia (a cura di), Luoghi sacri e spazi della santità, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, pp. 397-418, in particolare p. 404.
[114] Ibidem.
[115] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, ff. 111v, 132v, 133v, 211r; M. Rippa (a cura di), Guida della collina di Capodimonte, Acerra, A.C.M. SpA, 2011, p. 98.
[116] Ibidem.
[117] ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3852, ff. 47r-47v (si sono numerate le carte attribuendo il segno 1r al primo foglio scritto).
[118] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 132v.
[119] Ivi, f. 130r. A grandi linee, la ratio studiorum dei Chierici Regolari Minori pare improntata su quella dei gesuiti. A proposito di un testo, redatto nel 1546 dalla Compagnia di Gesù, per gli studenti di Padova – modello a partire dal quale troveranno sviluppo future variazioni – cfr. P. Gilbert, La preparazione della «Ratio studiorum» e l’insegnamento di filosofia di Benet Perera, in «Quaestio», 14 (2014), pp. 3-30, in particolare p. 9. Per i Chierici cfr. le Constitutiones Clericorum Regularium Minorum, Romae, Typis Angeli Bernabò, 1678, cap. 32, nrr. 1 e 3.
[120] ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3850, f. 90r. Si tratta di un volume manoscritto di grande formato, rilegato con coperta in pergamena, contenente 196 cc. r-v, numerate fino a 170r. Nell’intestazione reca il titolo completo De bono regimine, de expensis, de ordinibus, de transitu ad cursum philosophicum, de confessoribus.