Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Quando, giovedì 8 marzo 1753, il giovane raggiunse la Pietrasanta, erano circa le consuete «ore venti [3 PM]» [86]
. La sua voce prese a riecheggiare nella cappella sub titulo Assumptionis Beatae Mariae Virginis, nicchiata in una delle navate della chiesa [87]
. Dinanzi al teste, «d’età di anni ventidue» – specificherà una nota a margine di Cristoforo de Acampora, secondo notaio (adjunctus) [88]
– sedevano i giudici:
{p. 54}Costantino Vigilante (1685-1754), vescovo di Caiazzo dal 1727 e confessore del re di Spagna Carlo III di Borbone, sovrano sul trono del Regno di Napoli al tempo del processo [89]
; Francesco de Novellis (1695-1760), dal 1738 vescovo della diocesi di Sarno, in provincia di Salerno [90]
. E, poi, il subpromotore della fede, Ambrosio Scaramuzza. Completava la commissione il notaio Giuseppe Cinnarelli, attuario della causa e archivista della Curia arcivescovile di Napoli [91]
.
L’ordine del giorno prevedeva che i testimoni fossero: «esaminati (examinentur) con l’assistenza del subpromotore della fede, e non altrimenti (cum assistentia subpromotorii Fidei, et non alias) [...] prima sul questionario sottoscritto (prima super infrascriptus interrogatorii) e dopo sugli articoli di fede (deinde super articulii fidelites [92]
. In ginocchio e con la mano destra sui Vangeli, il teste ripeté il giuramento:
mi corre di dire la verità su quel che sarò domandato, precisamente in una materia così grave, qual è quella che mi si dice circa la canonizzazione e beatificazione de’ santi, ch’è la più importante della nostra santa e vera Religione Cattolica [93]
.
Dopodiché, interrogato, cominciò a narrare i fatti. Dal principio [94]
.{p. 55}

4. La capra e il latte

«Racconterò per ordine, sin dal principio, l’incominciamento della mia infermità; il suo progresso, ed il suo fine, con tutte le circostanze richieste» [95]
. Esordì Carlo. Poi, si lanciò in un resoconto lungo e dettagliato, per soddisfare l’undicesima interrogazione dei giudici (juxta 11): «viene chiesto inoltre come ebbe inizio la sua malattia, e a quali dolori e sintomi era associata, esaminandoli separatamente, e spiegando pubblicamente ciascuna circostanza, insieme alla causa della sua conoscenza» [96]
.
«Di complessione debole, e gracile, e di mal colore» il fraticello lo era già prima di vestire i panni da caracciolino, all’età di quindici anni, nella casa romana di San Lorenzo in Lucina [97]
. Era «a questo fine» che fu inviato a Napoli, il 13 dicembre del 1748, nel giorno di Santa Lucia: per godere di un clima più favorevole, meno umido, farà capire Michelangelo Pigna che, nelle stanze e per i corridoi della Pietrasanta, di Carlo fu l’ombra [98]
. Era, infatti, incaricato della «prefettura de’ giovani studenti professi» [99]
. A distanza di anni, però, nel 1762, in occasione del processo che si svolse a Camerino, l’ultimo dei tre a cui prese parte de Vivis, quest’ultimo riformulerà: «sono stato mandato dal mio padre generale a studiare la filosofia nella nostra casa di Santa Maria Maggiore di Napoli» [100]
. Sebbene il teste avesse ormai «anni trenta in circa» e diverso tempo fosse passato dal soggiorno alla Pietrasanta, i suoi ricordi non {p. 56}sembravano aver perso brillantezza [101]
. Tant’è che, interrogato sulla data del suo trasferimento a Napoli, dopo un iniziale tentennamento, formulò con maggiore accuratezza: «giunsi il giorno di Santa Lucia, se non erro dell’anno mille settecento quarantotto» [102]
. Così come, con eguale – se non maggiore – meticolosità, rimembrò il giorno e l’anno in cui rientrò in pianta stabile a Roma: «il ventinove marzo millesettecento cinquantatré, prima della quale [data] fui io in detto processo esaminato» [103]
. Non si può escludere che, in entrambe le circostanze, il teste riferisse il vero; e che ambedue i motivi, congiuntamente, decisero il suo spostamento nella città partenopea: studiare la filosofia in un clima più mite [104]
.
Nonostante tutto, il nuovo scenario, marittimo e vulcanico, così come l’aria sottile e salubre della capitale regnicola, non portarono alcun giovamento alla salute del nuovo arrivato. «Venne acciaccoso da Roma» [105]
– sempre Pigna – e «continuai nella stessa mia gracilità», confermò il professo [106]
. Anzi, di lì a un anno, le condizioni fisiche di Carlo si aggravarono. Tanto che si ritrovò:
nel mese di marzo del millesettecento cinquanta sorpreso da un gravissimo dolor di petto, cagionato da un catarro con gran difficoltà di respiro, tosse, e pulsazione grande nel petto, che mi avanzava molto più nel salire che io facevo per le scale, anche essendo vessato da una picciola febbre con qualche espurgazione rara però, e picciola, di sangue di bocca nell’atto del tossire [107]
.
Marzo 1750: catarro, fitte al petto e tachicardia; difficoltà respiratoria e tosse con espettorazione, sebbene contenuta, di {p. 57}sangue. Febbricola. Questi i primi sintomi. Il preposito della casa, allarmato, convocò il medico ordinario [108]
. Si chiamava Vincenzo de Iorio. Stando al ricordo di Carlo, ora piuttosto vago, il professore «prima attese a curarmi con alcuni brodi medicati, a me ignoti, con unzioni, anche a me ignote, nel petto» [109]
. Più preciso, a tal proposito, era il terzo punto del resoconto del miracolo allegato alla documentazione del processo: «uso frequente de’ rimedi anodini – analgesici, quindi – e pettorali con brodi medicati» [110]
. Tuttavia, com’era da aspettarsi, fu il medico a consegnare ai giudici una lista dettagliata dei medicamenti che sottopose al paziente: «olio di mandorle dolci, unture di olio di mandorle, sperma di balena, unguento d’altea, ed altre simili unzioni pettorali, vi fu anche il gileppo della tusillagine, diacordion liquido, o’ sia di papavero bianco, come anche la manna per lubricare il corpo, l’uso del latte per mesi, brodi medicati di china, salsa e corteccia di legno santo» [111]
. Insomma, gran parte del campionario farmaceutico zoo- e fito-alchemico di consolidata tradizione.
Nonostante tutto, accortosi della pertinacia dei sintomi, il medico ordinario spedì il fraticello «nella massaria di questa medesima casa, sopra San Gennaro dei Poveri, nel sobborgo di questa città» [112]
. Prima della peste del 1656, il sito, che sorgeva sulle catacombe che prendevano il nome dal santo protettore di Napoli, doveva avere il «carattere di una “cittadella sacra”», per «l’impetuoso sviluppo della zona sotto il profilo religioso» [113]
. Sebbene, al tempo di Carlo de Vivis, il sobborgo – ospedale annesso – godeva ormai {p. 58}di «gestione e governo laicali» [114]
. A dispetto di ciò, nel vallone extra moenia, i Chierici Regolari Minori continuarono a gestire una dipendenza. È possibile si trattasse del cosiddetto «Casino di San Gennaro», oggi descritto dalla Guida della collina di Capodimonte come: «un fabbricato di origini settecentesche [...] era una vera e propria masseria dove si coltivavano fave, granturco e uva» [115]
. E il fatto che «alla fine dell’Ottocento, la struttura era nota con il titolo di Case di San Francesco» potrebbe costituire un ulteriore indizio di corrispondenza – sebbene la guida riconduca il nome ai «cappuccini del vicino eremo [che] fino alla metà del secolo la gestivano» [116]
. Inoltre, un fascicolo che reca sulla coperta il titolo Notamenti degl’istromenti stipulati da Santa Maria Maggiore de’ Chierici Regolari Minori dal 1700 al 17[...], attesta che, a partire dal 1° giugno 1751, «Carlo e Vincenzo Balsamo, padre e figlio del Casale dell’Arenella, si pigliorono in affitto la parte di sopra e di mezzo della masseria di detto Monastero, sita a San Gennaro extra moenia» per «tre anni continui» e «alla ragione di 240 [ducati] l’anno». Questo, assieme ad altri donativi, i cui atti sono conservati nel fondo Corporazioni religiose soppresse dell’Archivio di Stato di Napoli, rende nota la spiccata vena imprenditoriale dell’ordine; la cui regola imponeva sì di rinunciare a qualsivoglia carica, meno, evidentemente, di far fruttare i propri capitali [117]
.
Più genericamente, nelle carte del processo si parlava di «un casino che noi possediamo unitamente con una massaria [...] a poco meno di un miglio da qua distante»; tant’è che Carlo vi si portò lì «a piedi» [118]
. Con queste parole, descriverà il luogo del ritiro Domenico Messina, di qualche
{p. 59}anno più giovane del compagno di banchi e di camerata, ma che, al suo pari, si esercitava «ne’ studii di filosofia». Il 19 giugno 1753, quando si presentò dinanzi all’altare della cappella dell’Assunta Beata Vergine Maria per testimoniare, sostenne di essere «in fine della metafisica», in altre parole al termine del cursus studiorum in filosofia [119]
. In un registro di grande formato, rinvenuto presso il succitato fondo delle Corporazioni, e che, tra le altre cose, censisce il «transito al corso di filosofia (de transitu ad cursum philosophicum)», si può leggere che, in data 22 ottobre 1753 (dies 22 mensis octobris 1753), fratres Dominicus Messina e altri fratelli furono «esaminati in modo corsivo su ogni parte della filosofia per il passaggio alla teologia (examinati breve intera philosophia pro transitu ad theologiam [120]
.
Note
[86] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 42v.
[87] Ibidem.
[88] Ivi, f. 44r. La prima attestazione utile che si è riusciti a rintracciare la si trova in una Responsio ad Animadversiones, in Francisci De Hieronymo sacerdotis professi Societatis Jesu. Positio super dubio..., Romae, Ex Typographia Reverendae Camerae Apostolicae, 1767, p. 9. Nel documento – con molta probabilità, sottoscritto anni prima della pubblicazione – Cristoforo d’Acampora si firma: «Notaro apostolico, e di questa [...] Curia Arcivescovile di Napoli».
[89] G. Cito e N. Amenta, Vita di Niccolò Amenta detto fra gli Arcadi Pisandro Antiniano scritta dall’abate signor don Gioseppe Cito detto fra gli stessi Panfilo Teccaleio. All’Illustriss. E Reverendiss. Signore Monsignor Costantino Vigilante vescovo di Caiazza, In Napoli, Nella stamperia di Gennario Muzio, 1728.
[90] Cfr. Notizie per l’anno 1738..., In Roma, Nella Stamperia del Chracas, presso S. Marco al Corso, 1738, p. 146; G. Normandia, Notizie storiche ed industriali della città di Sarno, In Napoli, Dalla Stamperia del Vaglio, 1851, p. 185.
[91] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 58v.
[92] Ivi, f. 239r.
[93] Ivi, f. 44r.
[94] I punti dell’interrogatorio che riguardano il suo caso sono 29. Cfr. ivi, ff. 239r-245r.
[95] Ivi, f. 45v.
[96] Ivi, f. 240v: «praetera interrogatur quale aegritudinis suae fuerit initium, et quibus ac doloribus, et simptomatibus ea associata extiterit, distinctae recensendo, atque explicando omnes et singulas coram circustantias, una cum scientiae suae causa».
[97] Ivi, f. 46r: «che sono in oggi sette anni in Roma».
[98] Ivi, f. 210v.
[99] Ivi, f. 208v.
[100] AAV, Cause dei Santi, Processus 1898, f. 56r. L’unità archivistica si presenta in forma di fascicoletti tenuti assieme da spago. A differenza degli altri faldoni è assente la coperta in pergamena. I fogli seguono la numerazione 1r-113r.
[101] Ivi, f. 55r.
[102] Ivi, f. 56r.
[103] Ivi, f. 58v.
[104] La salubrità dell’aria come rimedio medico torna spesso nella letteratura ippocratica di età moderna. Per la Campania, cfr. M. Conforti, Medicina sotto il vulcano. Corpi e salute a Napoli in età moderna, Milano, Editrice Bibliografica, 2021.
[105] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 210v.
[106] Ivi, f. 46r.
[107] Ibidem.
[108] Ibidem.
[109] Ibidem.
[110] Ivi, f. 18r.
[111] BNN, Chiesa cattolica, Congregazione dei Riti, PSD, Sala Farnese 48. H 45, pp. 17-18 (d’ora in avanti si riporterà il titolo del testo abbreviato).
[112] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 46r.
[113] M. Rosa, L’onda che ritorna: interno ed esterno sacro nella Napoli del ’600, in S. Boesch Gajano e L. Scaraffia (a cura di), Luoghi sacri e spazi della santità, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, pp. 397-418, in particolare p. 404.
[114] Ibidem.
[115] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, ff. 111v, 132v, 133v, 211r; M. Rippa (a cura di), Guida della collina di Capodimonte, Acerra, A.C.M. SpA, 2011, p. 98.
[116] Ibidem.
[117] ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3852, ff. 47r-47v (si sono numerate le carte attribuendo il segno 1r al primo foglio scritto).
[118] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 132v.
[119] Ivi, f. 130r. A grandi linee, la ratio studiorum dei Chierici Regolari Minori pare improntata su quella dei gesuiti. A proposito di un testo, redatto nel 1546 dalla Compagnia di Gesù, per gli studenti di Padova – modello a partire dal quale troveranno sviluppo future variazioni – cfr. P. Gilbert, La preparazione della «Ratio studiorum» e l’insegnamento di filosofia di Benet Perera, in «Quaestio», 14 (2014), pp. 3-30, in particolare p. 9. Per i Chierici cfr. le Constitutiones Clericorum Regularium Minorum, Romae, Typis Angeli Bernabò, 1678, cap. 32, nrr. 1 e 3.
[120] ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3850, f. 90r. Si tratta di un volume manoscritto di grande formato, rilegato con coperta in pergamena, contenente 196 cc. r-v, numerate fino a 170r. Nell’intestazione reca il titolo completo De bono regimine, de expensis, de ordinibus, de transitu ad cursum philosophicum, de confessoribus.