Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Per i maldicenti, nel quartiere dovettero tornare a risuonare i grugniti che i contemporanei di Pomponio, nel VI secolo, giuravano di sentire. Gorgogli demoniaci che, istruito da una visione mariana, il vescovo della città mise a tacere sotto il peso della pietra: nel 533 edificò la chiesa di Santa Maria Maggiore [31]
. Dell’antica costruzione, sopravvive oggi
{p. 39}il campanile in laterizio, dal cui fusto a base quadrangolare sguanciano colonne e trabeazioni appartenute a un tempio gentilizio dedicato a Diana [32]
. Rassomiglia a un canino che spunta da terra, dalla mascella fossile della vecchia megera Partenope. Pare che, ancora nel 1623, fosse possibile scorgere sulla guglia del campanile una scrofa di bronzo, ivi puntata a ricordo dell’accaduto [33]
; e che un cronista dell’Ottocento, «nel detto campanile sugli archi de’ quattro finestroni», vedesse affacciarsi gargolle in marmo che ritraevano la testa dello stesso animale [34]
. Non solo, le cronache attestano che in passato il clero soleva andare in processione al Duomo, sgozzare un porco e offrirne le polpe all’arcivescovo della città. L’usanza fu presto soppressa, sebbene, ancora ai tempi della festa del 1629, si continuasse a rendere all’autorità religiosa un ducato in luogo della carne di suino.

2. Il corpo del reato

Oltre «all’esposizione del sacro cadavero» [35]
, in quella settimana di festa i padri caracciolini issarono sulla «porta maggiore» della Pietrasanta un «quadro grande» che raffigurava il servo «ingenocchiato avanti un’altare depitto col’effigie del Santissimo Sacramento con una freccia che li passava la parte del cuore, con un motto scritto in un cartoccio anco di pittura, ch’andava sopra il capo del detto padre Francesco». Così si ricava da una causa che il Sant’Uffizio di Napoli istruì a seguito di una denuncia contro «l’eccesso de padri Chierici Minori circa l’espositione del corpo e {p. 40}solennità fatta per honorare la memoria del padre Francesco Caracciolo loro fondatore» [36]
. Si sa, i dissapori covano all’interno o, al più, si concretano nelle vicinanze: a visibile distanza. Nel 1629 nacquero per «gelosia» del parroco di Santa Maria Maggiore, don Pietro Grimaldi, e di qualche altro ecclesiastico zelante [37]
. Pure, Benedetto Mandino, un teatino, «suggerì a un suo penitente, membro della Famiglia Caracciolo, di autodenunciarsi all’inquisitore di Napoli per aver partecipato alla organizzazione della festa» [38]
. Così fece. Poi, l’inquirente delegato, il frate domenicano Giacinto Petroni, vescovo di Molfetta, trasmise il rapporto all’Inquisizione centrale di Roma [39]
. Fine della festa.
Non era la prima volta che la chiesa di Santa Maria Maggiore finiva nel mirino dell’Inquisizione. Lo dimostra una missiva di qualche tempo prima, che reca la data «Roma, 29 agosto 1615», ora pubblicata da Pierroberto Scaramella [40]
. In essa, il mittente, il cardinale e inquisitore supremo Giangarzia Millini, metteva al corrente l’arcivescovo metropolita di Napoli, Decio Carafa, circa la «causa di don Gabriele de Laira de’ chierici regolari minori» che, a inizio mese, il destinatario aveva già segnalato all’attenzione delle autorità romane. Da quanto è dato leggere, pare che, in tempo di Quaresima, il 28 marzo corrente anno, il chierico della Pietrasanta, commentando la pericope dell’adultera (Giov 8, 1-11), «entrasse nella materia della concettione della Beata Vergine et in quella habbia ecceduto in confutare la parte contraria». Almeno quella volta, la faccenda si concluse con un rimprovero – «hanno ordinato che io l’ammonisca, sì come {p. 41}ho fatto» – che l’inquisitore effettuò, in prima persona, al caracciolino venutosi a trovare a Roma per altri affari; pure, si raccomandò al penitente acché, di lì in avanti, osservasse in tale materia le bolle di Sisto IV – quelle del 1477 e del 1483 – e di Pio V, quella del 1570, che vietava in definitiva di discutere l’Immacolata Concezione [41]
.
Fig. 2. Santino di Francesco Caracciolo (1629), in ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica B 4 c, nr. 11, f. 13.
Nel 1629, tra le tante accuse, si confidava che «avanti della chiesa si vendevano le figure in stampa dove stava scolpito il detto padre Francesco». Almeno, si aggiungeva: «nella testa [...] non v’erano altrimenti raggi né splendori». {p. 42}E così sembra, osservando una di quelle incisioni a bulino che fu inviata a Roma come «corpo di reato» e allegata al suddetto incartamento (fig. 2) [42]
. Nonostante tutto, «i due predicatori incaricati di presentare la figura del Caracciolo, un gesuita e l’arcivescovo di Taranto [...] avevano più volte chiamato “santo” padre Francesco» [43]
.
Sulle celebrazioni, il ministro dell’Inquisizione di Napoli, Giacinto Petroni, fece calare un velo. Di terra. Ordinò – sulla scia di un decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede del 5 luglio 1629 – che la salma fosse riposta nella sua sepoltura e che dal portale maggiore venisse rimosso il quadro con l’effigie dello stesso. Il tribunale romano, poi, diede l’ultimo colpo di vanga: che ogni celebrazione e memoria del padre Caracciolo fossero soppresse per cinquant’anni [44]
.
Il veto dovette colpire nel segno se, nel corso dell’indagine super fama, svoltasi a Napoli nel 1676, un certo Ignazio de Vives, di «cinquant’otto anni», confermò di non aver visto alcun segno di devozione in prossimità del sepolcro di Francesco Caracciolo, presso la Pietrasanta [45]
. E aggiungeva: giunto in città – a dorso di un mulo che stramazzò dopo la traversata – il corpo fu inizialmente «riposto nel cimitero della chiesa vecchia», per poi essere «sepolt[o] nella sudetta chiesa nova di Santa Maria Maggiore, e proprio nel coro dietro l’altare maggiore vicino il corno dell’Evangelio, e vicino la sepoltura comune dell’altri padri, qual sepoltura sta in piana terra, ne vi è altro legno seu un varco sopra, {p. 43}che di fabrica eguale a’ tutto l’altro pavimento del detto coro» [46]
. Qui, l’unico ornamento che poteva vedersi era «una inscrittione in marmo nella qual si nota che in quel luogo se ritrova sepolto il sudetto servo di Dio» [47]
. Il testo «dice[va] in sustanza, che ivi giace il corpo di detto servo di Dio Francesco Caracciolo nostro fundatore, colla sua età et altre circostanze che non mi sovengono». Così riferiva Gioacchino Santorelli «d’anni sessant’otto», lunedì 15 febbraio dello stesso anno e nello stesso processo [48]
. Non senza imprecisioni, con grande probabilità dovute al fatto che non fosse un assiduo frequentatore del luogo: era di stanza presso la «casa di San Giuseppe di questa città», secondo monastero dell’ordine [49]
. L’iscrizione, nella sua forma completa e corretta, la conserva l’agiografo Cencelli: Hic jacet Corpus V.P. nostri Francisci Caraccioli Neapolitani, Religionis Clericorum Regularium Minorum Fundatoris. Qui obiit IV. Junii A.D. M.DC.VIII. Aetatis suae XXXXIV [50]
.
Non era dato vedervi altro. Con buona pace delle autorità, assicurava il primo teste, Ignazio: «io neanche al sepolcro di detto servo di Dio, né sopra, né attorno di quello so, né ho inteso, né veduto che siano state giammai appese, ritenute lampadi, candele, né qualsivoglia altra sorte di lume; né al presente se si ritengono, o accendono, sin come neanche so, né ho inteso, che siano state ritenute o’ accese, né al quale se ritengono o accendano all’imagini del medesimo servo di Dio» [51]
. Benché riferisse «ho viste molte imagini e ritratti di detto servo di Dio Francesco Caracciolo, tanto in tela quanto in stampa, in detta casa di Santa Maria Maggiore e
{p. 44}fuori d’essa, in altri luoghi»; ma, tranquillizzava i giudici che su di esse non brillassero «raggi, laureole, sblendori, titolo di beato, diadema». Azioni e simboli, continuava coscientemente, «le quali potesse[ro] dimostrare o denotare publica veneratione o culto» [52]
. I nimbi, i raggi, gli aloni luminosi, dipinti o incisi con premeditazione (o sovrascritti a posteriori) sulle chieriche dei venerabili o sul soggolo delle serve di Dio, alludevano alla loro presunta santità, nonché erano spia di venerazione idolatrica; di conseguenza, le immagini così agghindate venivano bandite. Su questo punto, un decreto di Urbano VIII, promulgato il 15 marzo 1625, era risolutivo [53]
. Pare, quindi, che il veto fosse riuscito a domare gli entusiasmi dei napoletani.
Note
[31] G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli..., In Napoli, Appresso Giovanni Iacomo Carlino, 1602, p. 367, precisa che la chiesa fu edificata «intorno il 524» e consacrata da papa Giovanni II nel 533.
[32] S. D’Aloe, Storia della chiesa di Napoli provata con monumenti, Napoli, Stabilimento Tipografico, 1861, p. 223.
[33] C. D’Engenio Caracciolo, Napoli sacra..., In Napoli, Per Ottavio Beltrano, 1623, pp. 60-61.
[34] L. Catalani, Le chiese di Napoli. Descrizione storica ed artistica..., 2 voll., vol. I, Napoli, Tipografia fu Migliaccio, 1845, p. 125.
[35] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., p. 211.
[36] ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica B 4 c, nr. 11.
[37] N. Morrea, Francesco Caracciolo, l’uomo, il fondatore, il santo, cit., p. 89. La relazione di Pietro Grimaldi in ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica B 4 c, nr. 11, ff. 3r-5v. A seguire, la testimonianza, non priva di particolari inquietanti, del cavalier Angelo Sciarra (ivi, ff. 8v-11r).
[38] N. Morrea, Francesco Caracciolo, l’uomo, il fondatore, il santo, cit., p. 89.
[39] L. Carotti, s.v. Petroni, Giacinto, in DBI, vol. 82, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015, pp. 738-739.
[40] P. Scaramella, Le lettere della Congregazione del Sant’Ufficio ai tribunali di fede di Napoli, 1563-1625, Trieste, Edizioni dell’Università, 2002, pp. 439-440.
[41] M. Lamy, L’immaculée conception: Étapes et enjeux d’une controverse au Moyen Âge (XIIe-XVe siècles), Paris, Institut D’Études Augustiniennes, 2000.
[42] L’immagine, ritenuta posteriore al 1608, e archiviata nell’incartamento della causa sopracitata (ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica B 4 c, nr. 11, f. 13) è pubblicata anche in A. Cifres e M. Pizzo (a cura di), Rari e preziosi. Documenti dell’età moderna e contemporanea dall’archivio del Sant’Uffizio: Catalogo mostra a Roma, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, Gangemi, 2016, p. 111.
[43] N. Morrea, Francesco Caracciolo, l’uomo, il fondatore, il santo, cit., p. 89.
[44] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del beato Francesco Caracciolo..., cit., pp. 218-219.
[45] AAV, Cause dei Santi, Processus 1888, ff. 48r, 50v-51r. L’unità archivistica consiste di un faldone rilegato, contenente 390 ff., r-v (copia).
[46] Ivi, ff. 50v-51r. L’aneddoto del mulo è riportato da A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., pp. 204-205. Lo stesso agiografo precisa che, prima che le reliquie fossero trasferite sotto il coro dell’altare, passarono per la «cappella dimestica» della Pietrasanta (ivi, p. 212).
[47] Ivi, f. 51r.
[48] Ivi, ff. 102v e 108v.
[49] Ivi, f. 102v.
[50] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., p. 218.
[51] Ivi, f. 51v.
[52] Ivi, f. 52r.
[53] Decreto stampato in L. Castellini, Elucidarium theologicum de certitudine gloriae sanctorum canonizatorum..., Romae, Sumptibus Guilelmi Facciotti, 1628, p. 121. Circa la possibilità di intervenire ex post sulle immagini (nello specifico il caso trattato è il graffito) cfr. V. Plesch, Destruction or Preservation? The Meaning of Graffiti on Paintings at Religious Sites, in V. Chieffo Raguin (a cura di), Art, Piety and Destruction in the Christian West, Farnham-Burlington, Ashgate, 2010, pp. 137-172; O. Niccoli, Vedere con gli occhi del cuore. Alle origini del potere delle immagini, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 46 porta l’attenzione su quanto questi segni giustapposti e «spesso eliminati dal restauro, [...] meriterebbero di essere conservati in quanto testimoniano il potere forte esercitato dalle immagini sulla comunità a cui appartenevano».