Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Per
i maldicenti, nel quartiere dovettero tornare a
risuonare i grugniti che i contemporanei di
Pomponio, nel VI secolo, giuravano di sentire.
Gorgogli demoniaci che, istruito da una visione
mariana, il vescovo della città mise a tacere
sotto il peso della pietra: nel 533 edificò la
chiesa di Santa Maria Maggiore
[31]
. Dell’antica costruzione, sopravvive
oggi
¶{p. 39}il campanile in
laterizio, dal cui fusto a base quadrangolare
sguanciano colonne e trabeazioni appartenute a un
tempio gentilizio dedicato a Diana
[32]
. Rassomiglia a un canino che spunta da
terra, dalla mascella fossile della vecchia megera
Partenope. Pare che, ancora nel 1623, fosse
possibile scorgere sulla guglia del campanile una
scrofa di bronzo, ivi puntata a ricordo dell’accaduto
[33]
; e che un cronista dell’Ottocento,
«nel detto campanile sugli archi de’ quattro
finestroni», vedesse affacciarsi gargolle in marmo
che ritraevano la testa dello stesso animale
[34]
. Non solo, le cronache attestano che
in passato il clero soleva andare in processione
al Duomo, sgozzare un porco e offrirne le polpe
all’arcivescovo della città. L’usanza fu presto
soppressa, sebbene, ancora ai tempi della festa
del 1629, si continuasse a rendere all’autorità
religiosa un ducato in luogo della carne di suino.
2. Il corpo del reato
Oltre «all’esposizione del sacro cadavero»
[35]
, in quella settimana di festa i padri
caracciolini issarono sulla «porta maggiore» della
Pietrasanta un «quadro grande» che raffigurava il
servo «ingenocchiato avanti un’altare depitto
col’effigie del Santissimo Sacramento con una
freccia che li passava la parte del cuore, con un
motto scritto in un cartoccio anco di pittura,
ch’andava sopra il capo del detto padre
Francesco». Così si ricava da una causa che il
Sant’Uffizio di Napoli istruì a seguito di una
denuncia contro «l’eccesso de padri Chierici
Minori circa l’espositione del corpo e
¶{p. 40}solennità fatta per
honorare la memoria del padre Francesco Caracciolo
loro fondatore»
[36]
. Si sa, i dissapori covano all’interno
o, al più, si concretano nelle vicinanze: a
visibile distanza. Nel 1629 nacquero per «gelosia»
del parroco di Santa Maria Maggiore, don Pietro
Grimaldi, e di qualche altro ecclesiastico zelante
[37]
. Pure, Benedetto Mandino, un teatino,
«suggerì a un suo penitente, membro della Famiglia
Caracciolo, di autodenunciarsi all’inquisitore di
Napoli per aver partecipato alla organizzazione
della festa»
[38]
. Così fece. Poi, l’inquirente
delegato, il frate domenicano Giacinto Petroni,
vescovo di Molfetta, trasmise il rapporto
all’Inquisizione centrale di Roma
[39]
. Fine della festa.
Non
era la prima volta che la chiesa di Santa Maria
Maggiore finiva nel mirino dell’Inquisizione. Lo
dimostra una missiva di qualche tempo prima, che
reca la data «Roma, 29 agosto 1615», ora
pubblicata da Pierroberto Scaramella
[40]
. In essa, il mittente, il cardinale e
inquisitore supremo Giangarzia Millini, metteva al
corrente l’arcivescovo metropolita di Napoli,
Decio Carafa, circa la «causa di don Gabriele de
Laira de’ chierici regolari minori» che, a inizio
mese, il destinatario aveva già segnalato
all’attenzione delle autorità romane. Da quanto è
dato leggere, pare che, in tempo di Quaresima, il
28 marzo corrente anno, il chierico della
Pietrasanta, commentando la pericope dell’adultera
(Giov 8, 1-11), «entrasse
nella materia della concettione della Beata
Vergine et in quella habbia ecceduto in confutare
la parte contraria». Almeno quella volta, la
faccenda si concluse con un rimprovero – «hanno
ordinato che io l’ammonisca, sì come
¶{p. 41}ho fatto» – che
l’inquisitore effettuò, in prima persona, al
caracciolino venutosi a trovare a Roma per altri
affari; pure, si raccomandò al penitente acché, di
lì in avanti, osservasse in tale materia le bolle
di Sisto IV – quelle del 1477 e del 1483 – e di
Pio V, quella del 1570, che vietava in definitiva
di discutere l’Immacolata Concezione
[41]
.
Nel
1629, tra le tante accuse, si confidava che
«avanti della chiesa si vendevano le figure in
stampa dove stava scolpito il detto padre
Francesco». Almeno, si aggiungeva: «nella testa
[...] non v’erano altrimenti raggi né splendori».
¶{p. 42}E così sembra, osservando
una di quelle incisioni a bulino che fu inviata a
Roma come «corpo di reato» e allegata al suddetto
incartamento (fig. 2)
[42]
. Nonostante tutto, «i due predicatori
incaricati di presentare la figura del Caracciolo,
un gesuita e l’arcivescovo di Taranto [...]
avevano più volte chiamato “santo” padre Francesco»
[43]
.
Sulle celebrazioni, il ministro dell’Inquisizione
di Napoli, Giacinto Petroni, fece calare un velo.
Di terra. Ordinò – sulla scia di un decreto della
Congregazione per la Dottrina della Fede del 5
luglio 1629 – che la salma fosse riposta nella sua
sepoltura e che dal portale maggiore venisse
rimosso il quadro con l’effigie dello stesso. Il
tribunale romano, poi, diede l’ultimo colpo di
vanga: che ogni celebrazione e memoria del padre
Caracciolo fossero soppresse per cinquant’anni
[44]
.
Il
veto dovette colpire nel segno se, nel corso
dell’indagine super fama,
svoltasi a Napoli nel 1676, un certo Ignazio de
Vives, di «cinquant’otto anni», confermò di non
aver visto alcun segno di devozione in prossimità
del sepolcro di Francesco Caracciolo, presso la Pietrasanta
[45]
. E aggiungeva: giunto in città – a
dorso di un mulo che stramazzò dopo la traversata
– il corpo fu inizialmente «riposto nel cimitero
della chiesa vecchia», per poi essere «sepolt[o]
nella sudetta chiesa nova di Santa Maria Maggiore,
e proprio nel coro dietro l’altare maggiore vicino
il corno dell’Evangelio, e vicino la sepoltura
comune dell’altri padri, qual sepoltura sta in
piana terra, ne vi è altro legno seu un varco
sopra, ¶{p. 43}che di fabrica
eguale a’ tutto l’altro pavimento del detto coro»
[46]
. Qui, l’unico ornamento che poteva
vedersi era «una inscrittione in marmo nella qual
si nota che in quel luogo se ritrova sepolto il
sudetto servo di Dio»
[47]
. Il testo «dice[va] in sustanza, che
ivi giace il corpo di detto servo di Dio Francesco
Caracciolo nostro fundatore, colla sua età et
altre circostanze che non mi sovengono». Così
riferiva Gioacchino Santorelli «d’anni
sessant’otto», lunedì 15 febbraio dello stesso
anno e nello stesso processo
[48]
. Non senza imprecisioni, con grande
probabilità dovute al fatto che non fosse un
assiduo frequentatore del luogo: era di stanza
presso la «casa di San Giuseppe di questa città»,
secondo monastero dell’ordine
[49]
. L’iscrizione, nella sua forma
completa e corretta, la conserva l’agiografo
Cencelli: Hic jacet Corpus V.P. nostri
Francisci Caraccioli Neapolitani, Religionis
Clericorum Regularium Minorum Fundatoris. Qui
obiit IV. Junii A.D. M.DC.VIII. Aetatis suae
XXXXIV
[50]
.
Non
era dato vedervi altro. Con buona pace delle
autorità, assicurava il primo teste, Ignazio: «io
neanche al sepolcro di detto servo di Dio, né
sopra, né attorno di quello so, né ho inteso, né
veduto che siano state giammai appese, ritenute
lampadi, candele, né qualsivoglia altra sorte di
lume; né al presente se si ritengono, o accendono,
sin come neanche so, né ho inteso, che siano state
ritenute o’ accese, né al quale se ritengono o
accendano all’imagini del medesimo servo di Dio»
[51]
. Benché riferisse «ho viste molte
imagini e ritratti di detto servo di Dio Francesco
Caracciolo, tanto in tela quanto in stampa, in
detta casa di Santa Maria Maggiore e
¶{p. 44}fuori d’essa, in altri
luoghi»; ma, tranquillizzava i giudici che su di
esse non brillassero «raggi, laureole, sblendori,
titolo di beato, diadema». Azioni e simboli,
continuava coscientemente, «le quali potesse[ro]
dimostrare o denotare publica veneratione o culto»
[52]
. I nimbi, i raggi, gli aloni luminosi,
dipinti o incisi con premeditazione (o
sovrascritti a posteriori) sulle chieriche dei
venerabili o sul soggolo delle serve di Dio,
alludevano alla loro presunta santità, nonché
erano spia di venerazione idolatrica; di
conseguenza, le immagini così agghindate venivano
bandite. Su questo punto, un decreto di Urbano
VIII, promulgato il 15 marzo 1625, era risolutivo
[53]
. Pare, quindi, che il veto fosse
riuscito a domare gli entusiasmi dei napoletani.
Note
[31] G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli..., In Napoli, Appresso Giovanni Iacomo Carlino, 1602, p. 367, precisa che la chiesa fu edificata «intorno il 524» e consacrata da papa Giovanni II nel 533.
[32] S. D’Aloe, Storia della chiesa di Napoli provata con monumenti, Napoli, Stabilimento Tipografico, 1861, p. 223.
[33] C. D’Engenio Caracciolo, Napoli sacra..., In Napoli, Per Ottavio Beltrano, 1623, pp. 60-61.
[34] L. Catalani, Le chiese di Napoli. Descrizione storica ed artistica..., 2 voll., vol. I, Napoli, Tipografia fu Migliaccio, 1845, p. 125.
[35] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., p. 211.
[36] ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica B 4 c, nr. 11.
[37] N. Morrea, Francesco Caracciolo, l’uomo, il fondatore, il santo, cit., p. 89. La relazione di Pietro Grimaldi in ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica B 4 c, nr. 11, ff. 3r-5v. A seguire, la testimonianza, non priva di particolari inquietanti, del cavalier Angelo Sciarra (ivi, ff. 8v-11r).
[38] N. Morrea, Francesco Caracciolo, l’uomo, il fondatore, il santo, cit., p. 89.
[39] L. Carotti, s.v. Petroni, Giacinto, in DBI, vol. 82, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015, pp. 738-739.
[40] P. Scaramella, Le lettere della Congregazione del Sant’Ufficio ai tribunali di fede di Napoli, 1563-1625, Trieste, Edizioni dell’Università, 2002, pp. 439-440.
[41] M. Lamy, L’immaculée conception: Étapes et enjeux d’une controverse au Moyen Âge (XIIe-XVe siècles), Paris, Institut D’Études Augustiniennes, 2000.
[42] L’immagine, ritenuta posteriore al 1608, e archiviata nell’incartamento della causa sopracitata (ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica B 4 c, nr. 11, f. 13) è pubblicata anche in A. Cifres e M. Pizzo (a cura di), Rari e preziosi. Documenti dell’età moderna e contemporanea dall’archivio del Sant’Uffizio: Catalogo mostra a Roma, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, Gangemi, 2016, p. 111.
[43] N. Morrea, Francesco Caracciolo, l’uomo, il fondatore, il santo, cit., p. 89.
[44] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del beato Francesco Caracciolo..., cit., pp. 218-219.
[45] AAV, Cause dei Santi, Processus 1888, ff. 48r, 50v-51r. L’unità archivistica consiste di un faldone rilegato, contenente 390 ff., r-v (copia).
[46] Ivi, ff. 50v-51r. L’aneddoto del mulo è riportato da A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., pp. 204-205. Lo stesso agiografo precisa che, prima che le reliquie fossero trasferite sotto il coro dell’altare, passarono per la «cappella dimestica» della Pietrasanta (ivi, p. 212).
[47] Ivi, f. 51r.
[48] Ivi, ff. 102v e 108v.
[49] Ivi, f. 102v.
[50] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., p. 218.
[51] Ivi, f. 51v.
[52] Ivi, f. 52r.
[53] Decreto stampato in L. Castellini, Elucidarium theologicum de certitudine gloriae sanctorum canonizatorum..., Romae, Sumptibus Guilelmi Facciotti, 1628, p. 121. Circa la possibilità di intervenire ex post sulle immagini (nello specifico il caso trattato è il graffito) cfr. V. Plesch, Destruction or Preservation? The Meaning of Graffiti on Paintings at Religious Sites, in V. Chieffo Raguin (a cura di), Art, Piety and Destruction in the Christian West, Farnham-Burlington, Ashgate, 2010, pp. 137-172; O. Niccoli, Vedere con gli occhi del cuore. Alle origini del potere delle immagini, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 46 porta l’attenzione su quanto questi segni giustapposti e «spesso eliminati dal restauro, [...] meriterebbero di essere conservati in quanto testimoniano il potere forte esercitato dalle immagini sulla comunità a cui appartenevano».