Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Erano passati molti anni dall’inaugurazione della
causa, quindi dalla cosiddetta fase ordinaria di
pertinenza del vescovo della diocesi. Una prima
indagine super fama fu
indetta a Napoli nel 1676 e altre due ne
seguirono, rispettivamente negli anni 1694-1699 e 1702-1703
[14]
. Dopodiché, si inaugurò la fase
apostolica, di competenza della Curia,
¶{p. 34}che, in prima istanza, si
proponeva di esaminare le virtù cardinali e
teologali del candidato, quindi i miracoli
compiuti per sua intercessione. A un anno dalla
chiusura della fase ordinaria, difatti, nuovi
teste furono interrogati super
virtutibus (1704-1707)
[15]
.
Insomma, all’inizio dei lavori per la
beatificazione e canonizzazione del servo di Dio,
Francesco Caracciolo era passato a miglior vita da
oltre un secolo
[16]
. E, con lui, i possibili testimoni
oculari: alcuni per anzianità, altri stroncati
dalla peste del 1656, che causò a Napoli centinaia
di migliaia di morti
[17]
. Il motivo del ritardo
nell’inaugurazione del processo, invece, era da
attribuirsi a un decreto emanato dalla Santa Sede.
Nel 1629, dopo oltre un ventennio dalla morte del
padre dell’ordine, i Chierici organizzarono a
Napoli una festa in suo onore. Irresponsabile.
Tale era poiché, nel periodo della Controriforma,
la Chiesa aveva vietato ogni cerimonia in memoria
di quanti fossero spirati in fama di santità. E la
tenuta di un simile decoro era imposta almeno fino
a quando questi ultimi fossero stati beatificati:
il riconoscimento intermedio nel più lungo e
farraginoso processo di canonizzazione che
autorizzava il culto del beato, sebbene entro il
perimetro diocesano. Un espediente legittimato da
Clemente VIII (papa dal 1592 al 1605)
¶{p. 35}attraverso l’istituzione
di un organo apposito, la Congregazione dei Beati
(1602), che aveva il fine di disciplinare la
religiosità popolare, brulicante e incontrollata
[18]
. Uno spazio di manovra, a dire il vero
cantonale, era lasciato dai decreti del 1625
(super non cultu), promulgati
da Urbano VIII, che, come spiega lo storico
Jean-Michel Sallmann, «stabilivano una distinzione
fra il culto pubblico, che veniva vietato, e
quello privato, che veniva autorizzato. Nulla
impediva quindi certe forme discrete di
devozione», come l’ornare di fiori ed ex voto le
tombe di quanti fossero spirati in odore di
santità. E «chi conosce la Napoli del XVII secolo
– continua – può facilmente immaginare che i
compromessi non dovettero mancare»
[19]
.
Tuttavia, quanto capitò nel 1629, a Napoli,
andava ben oltre il compromesso. Nei giorni dal 9
all’11 giugno, i Chierici Regolari Minori della
Chiesa di Santa Maria Maggiore vollero celebrare
l’anniversario della morte del loro fondatore. Ne
riesumarono il corpo e lo esposero «al pubblico
culto e venerazione»
[20]
. Sebbene vietato, un simile atto non è
da considerarsi peregrino a quel tempo. Né si
ritiene vada spiegato nei soli termini di un
ripristino della crisi del lutto – significato che
gli antropologi sono soliti
¶{p. 36}attribuire all’usanza di
esporre la salma nei rituali funerari civili.
Piuttosto, riprende Sallmann:
Applicati ai santi, i rituali funerari hanno una duplice funzione. Convincere tutti i fedeli che il venerabile appena morto è davvero un santo, che è assiso sin dal momento della morte nella corte celeste, dove gode della visione beatifica, e diviene quindi un intercessore al quale ci si può rivolgere nelle proprie preghiere per sollecitare una grazia. La seconda funzione è ancora più concreta: consiste nell’inventariare le qualità sovrannaturali del corpo e assicurarne la trasmissione, dal corpo vivo a quello morto: funzione altamente strategica, visto che sono in gioco le sorti delle reliquie. Proprio per questo il santo non muore mai [21] .
Qualità sovrannaturali che erano tanto
straordinarie, quanto maggiore era il tempo
trascorso tra l’inumazione e l’esumazione della
salma. E, nel caso di Francesco, a essere passati
erano ben ventun anni. In un simile lasso
temporale, nessun corpo avrebbe potuto resistere
all’azione disgregante degli agenti naturali.
Meglio: nessun corpo naturale. Ma quelle dei
candidati alla santità erano carni e ossa
uraniche. Esemplificativo, a tal proposito, è un
episodio occorso qualche tempo prima la morte di
Caracciolo, che lo storico Bradford A. Bouley
stralcia dal processo per la canonizzazione di
Teresa d’Avila. Quando nel 1583, nella città di
Alba de Tormes, un ufficiale religioso del luogo
scoperchiò la tomba della mistica spagnola, si
trovò al cospetto di un evento eccezionale. La
bara in legno era «quasi marcia», nonché «disfatta
nella parte frontale». Al di sotto, faceva
capolino il feretro di Teresa: del tutto
«incorrotto». Riporta lo studioso: «il notaio
registrò che il corpo si fosse mantenuto “con una
certa, meravigliosa, integrità, rimanendo così
flessibile e morbido al tatto, tanto da sembrare
che ella fosse viva”»
[22]
.
Allorché, a distanza di due decenni, i
caracciolini decisero di riesumarlo, sorpresero il
corpo di Caracciolo perlopiù
¶{p. 37}ossificato, ma spirante
odore e «aria sottile»
[23]
. Nonché, come nel caso della santa
spagnola, trovarono le assi della bara marce. Nel
1769, sfumati i rancori e in festa per la
beatificazione di Francesco, il padre caracciolino
Agostino Cencelli riferirà che gli esumanti
«restarono meravigliati al vedere quel sacro
cadavero dopo il corso di venti anni mantenere
ancora in tal luogo l’unghie, i capelli, e
l’ossatura del petto intera; quando di più la
cassa era tutta fradicia e che toccata andette in polvere»
[24]
. Diversamente, alla vista dei tessuti
in corruzione avanzata, di scampoli di ossa,
larve, vermi e insetti, le cronache del tempo non
avrebbero potuto tacere l’orrore. Così come
avvenne, stando alla ricostruzione dello stesso
agiografo, quando, il 30 luglio del 1628, i
religiosi si intrufolarono nella sepoltura comune
dei caracciolini per l’esumazione: «ma non vi si
poteva così facilmente entrare per lo puzzolente e
crasso vapore che tramandava. Era situata nella
sagrestia, luogo umidissimo, per cui ancora i
cadaveri appena posti si disfacevano [...] onde
alcuni [padri], che ancor vi si trattenevano,
dovettero frettolosamente uscirne per non
lasciarvi la vita»
[25]
. Ciò, nonostante gli stomaci barocchi
fossero coriacei: non era difficile a quel tempo
assistere allo smembramento delle salme dei
venerabili; mattanza a cui i fedeli si
abbandonavano in uno stato di estatica frenesia –
non esclusi, fuor di metafora, veri e propri atti
di antropofagia. «I capelli, la barba, le unghie,
le dita dei piedi, che a volte venivano staccate a
morsi, i calli dei piedi o delle ginocchia, più
raramente i denti»: erano queste le parti oggetto
di razzia
[26]
.¶{p. 38}
Nel
caso di Francesco, nel giugno del 1629, il feretro
non fu vittima di un simile accanimento. Per
quanto, come groviglio verminoso sul «sacro
tumulo», vi fosse una tale quantità di popolo che
il cardinale arcivescovo di Napoli, Francesco
Boncompagni, «non avendo potuto entrare per la
chiesa, gli era convenuto passare per la porta
della casa»
[27]
. Anch’egli, «personaggio così
autorevole», oltre a dare il placet
alla cerimonia, prese parte ad essa.
Invero, l’appuntamento fu spostato dal 4 all’11
giugno per garantire la presenza del porporato,
impegnato com’era nelle celebrazioni per la
Pentecoste. Corse a onorare lo scheletro del padre
caracciolino che per l’occasione fu esposto in una
teca di cristallo
[28]
. Mancava solo il viceré: Don Antonio
Alvarez di Toledo. All’invito aveva risposto
affermativamente, salvo poi tirarsi indietro per
sue indisposizioni; nota Vittoria Fiorelli: «uno
sgarbo del duca d’Alba che non era certo privo di significato»
[29]
. L’assenza dello spagnolo fu colmata
da uno scandaglio di devoti napoletani. Dal canto
loro, riuscirono a tenere a freno gli appetiti e
si limitarono a «gettare de’ fiori sopra la cassa
per poi ripigliarseli come consagrati dal contatto
di quella»; o, al più, a «raccorre i pezzetti de’
cristalli che chiudevano la cassa come sacre
reliquie, essendo quelli stati rotti dal tocco
frequente delle corone o medaglie»
[30]
.
Per
i maldicenti, nel quartiere dovettero tornare a
risuonare i grugniti che i contemporanei di
Pomponio, nel VI secolo, giuravano di sentire.
Gorgogli demoniaci che, istruito da una visione
mariana, il vescovo della città mise a tacere
sotto il peso della pietra: nel 533 edificò la
chiesa di Santa Maria Maggiore
[31]
. Dell’antica costruzione, sopravvive
oggi
¶{p. 39}il campanile in
laterizio, dal cui fusto a base quadrangolare
sguanciano colonne e trabeazioni appartenute a un
tempio gentilizio dedicato a Diana
[32]
. Rassomiglia a un canino che spunta da
terra, dalla mascella fossile della vecchia megera
Partenope. Pare che, ancora nel 1623, fosse
possibile scorgere sulla guglia del campanile una
scrofa di bronzo, ivi puntata a ricordo dell’accaduto
[33]
; e che un cronista dell’Ottocento,
«nel detto campanile sugli archi de’ quattro
finestroni», vedesse affacciarsi gargolle in marmo
che ritraevano la testa dello stesso animale
[34]
. Non solo, le cronache attestano che
in passato il clero soleva andare in processione
al Duomo, sgozzare un porco e offrirne le polpe
all’arcivescovo della città. L’usanza fu presto
soppressa, sebbene, ancora ai tempi della festa
del 1629, si continuasse a rendere all’autorità
religiosa un ducato in luogo della carne di suino.
Note
[14] AAV, Cause dei Santi, Processus 1888 e 1889.
[15] AAV, Cause dei Santi, Processus 1891.
[16] Stando a C. Piselli, Notizia historica della Religione de’ PP. Chierici Regolari Minori..., In Roma, Nella Stamperia di Giovanni Francesco Buagni, 1710, p. 96, Francesco Caracciolo si spense: «verso le hore ventitrè del mercordì precedente la solennità del Corpo di Christo alli 4 di giugno dell’anno 1608, in età di anni 44».
[17] Analizzando alcune fonti coeve, il computo delle vittime causate dal morbo risulta ondeggiante, dalle «quattrocento sessantamila persone per la città e borghi» di cui lascia memoria, tra il 1655 e il 1656, il segretario dei Bianchi della Giustizia – in S. de Renzi, Napoli nell’anno 1656 ovvero documenti della pestilenza..., Napoli, Tipografia di Domenico de Pascale, 1867, pp. 375-385 – ai «seicentomila» conteggiati un decennio dopo, non senza esagerazioni, da N. Pasquale, A’ posteri della peste di Napoli, e suo regno nell’anno 1656..., In Napoli, Per Luc’Antonio di Fusco, 1668, p. 59. Per un resoconto più recente dei fatti, cfr. R.M. San Juan, Contaminating Bodies: Print and the 1656 Plague in Naples, in M. Calaresu e H. Hills (a cura di), New Approaches to Naples c.1500-c.1800: The Power of Place, Farnham, Ashgate, 2013, pp. 63-78.
[18] I cardinali del Sant’Uffizio manterranno il compito di reprimere o approvare i culti locali almeno fino al pontificato di Urbano VIII (papa dal 1623 al 1644), quando il controllo di questi ultimi passerà definitivamente sotto l’egida della Congregazione dei Riti. Nonostante ciò, gli inquisitori continueranno a supervisionare la nascita dei culti locali alla ricerca di impostori, come accadde nel 1629, in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della morte di Caracciolo. Cfr. M. Gotor, I beati del papa. Santità, Inquisizione e obbedienza in età moderna, Firenze, Olschki, 2002, pp. 127-253 e S. Ditchfield, «Coping With the Beati Moderni». Canonization Procedure in the Aftermath of the Council of Trent, in T.M. McCoog (a cura di), Ite Inflammate Omnia: Selected Historical Papers from Conferences Held at Loyola and Rome in 2006, Rome, Institutum Historicum Societatis Iesu, 2010, pp. 413-439, in particolare p. 424.
[20] ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica B 4 c, nr. 11. Tra le più complete e documentate ricostruzioni dell’accaduto, cfr. V. Fiorelli, I sentieri dell’inquisitore. Sant’Uffizio, periferie ecclesiastiche e disciplinamento devozionale (1615-1678), Napoli, Guida, 2009, pp. 187-193.
[21] J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., pp. 418-419.
[22] B.A. Bouley, Pious Postmortems, cit., p. 58. Circa il punto di vista del popolo e l’esperienza che quest’ultimo faceva dell’inalterabilità delle carni, cfr. J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., p. 381.
[23] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., In Roma, Nella stamperia di Giovanni Zempel, 1769, p. 210.
[24] Ibidem.
[25] Ivi, pp. 210-211.
[26] J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., p. 387. M. Azzolini, Coping with Catastrophe. St Filippo Neri as Patron Saint of Earthquakes, in «Quaderni storici», 52, 3 (2017), pp. 727-750, in particolare p. 734, riporta una memoria di Vincenzo Maria Orsini (Benedetto XIII), secondo cui il pontefice fu risanato completamente dopo aver assunto alcune reliquie del santo: efficaci «più di ogni altro rimedio naturale».
[27] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., pp. 214-215; U. Coldagelli, s.v. Boncompagni, Francesco, in DBI, vol. 11, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1969, pp. 688-689.
[28] Ivi, p. 215.
[29] N. Morrea, Francesco Caracciolo, l’uomo, il fondatore, il santo, cit., p. 89; V. Fiorelli, I sentieri dell’inquisitore, cit., p. 189, n. 23.
[30] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., p. 217.
[31] G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli..., In Napoli, Appresso Giovanni Iacomo Carlino, 1602, p. 367, precisa che la chiesa fu edificata «intorno il 524» e consacrata da papa Giovanni II nel 533.
[32] S. D’Aloe, Storia della chiesa di Napoli provata con monumenti, Napoli, Stabilimento Tipografico, 1861, p. 223.
[33] C. D’Engenio Caracciolo, Napoli sacra..., In Napoli, Per Ottavio Beltrano, 1623, pp. 60-61.
[34] L. Catalani, Le chiese di Napoli. Descrizione storica ed artistica..., 2 voll., vol. I, Napoli, Tipografia fu Migliaccio, 1845, p. 125.