Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c1
Erano passati molti anni dall’inaugurazione della causa, quindi dalla cosiddetta fase ordinaria di pertinenza del vescovo della diocesi. Una prima indagine super fama fu indetta a Napoli nel 1676 e altre due ne seguirono, rispettivamente negli anni 1694-1699 e 1702-1703 [14]
. Dopodiché, si inaugurò la fase apostolica, di competenza della Curia,
{p. 34}che, in prima istanza, si proponeva di esaminare le virtù cardinali e teologali del candidato, quindi i miracoli compiuti per sua intercessione. A un anno dalla chiusura della fase ordinaria, difatti, nuovi teste furono interrogati super virtutibus (1704-1707) [15]
.
Insomma, all’inizio dei lavori per la beatificazione e canonizzazione del servo di Dio, Francesco Caracciolo era passato a miglior vita da oltre un secolo [16]
. E, con lui, i possibili testimoni oculari: alcuni per anzianità, altri stroncati dalla peste del 1656, che causò a Napoli centinaia di migliaia di morti [17]
. Il motivo del ritardo nell’inaugurazione del processo, invece, era da attribuirsi a un decreto emanato dalla Santa Sede. Nel 1629, dopo oltre un ventennio dalla morte del padre dell’ordine, i Chierici organizzarono a Napoli una festa in suo onore. Irresponsabile. Tale era poiché, nel periodo della Controriforma, la Chiesa aveva vietato ogni cerimonia in memoria di quanti fossero spirati in fama di santità. E la tenuta di un simile decoro era imposta almeno fino a quando questi ultimi fossero stati beatificati: il riconoscimento intermedio nel più lungo e farraginoso processo di canonizzazione che autorizzava il culto del beato, sebbene entro il perimetro diocesano. Un espediente legittimato da Clemente VIII (papa dal 1592 al 1605) {p. 35}attraverso l’istituzione di un organo apposito, la Congregazione dei Beati (1602), che aveva il fine di disciplinare la religiosità popolare, brulicante e incontrollata [18]
. Uno spazio di manovra, a dire il vero cantonale, era lasciato dai decreti del 1625 (super non cultu), promulgati da Urbano VIII, che, come spiega lo storico Jean-Michel Sallmann, «stabilivano una distinzione fra il culto pubblico, che veniva vietato, e quello privato, che veniva autorizzato. Nulla impediva quindi certe forme discrete di devozione», come l’ornare di fiori ed ex voto le tombe di quanti fossero spirati in odore di santità. E «chi conosce la Napoli del XVII secolo – continua – può facilmente immaginare che i compromessi non dovettero mancare» [19]
.
Tuttavia, quanto capitò nel 1629, a Napoli, andava ben oltre il compromesso. Nei giorni dal 9 all’11 giugno, i Chierici Regolari Minori della Chiesa di Santa Maria Maggiore vollero celebrare l’anniversario della morte del loro fondatore. Ne riesumarono il corpo e lo esposero «al pubblico culto e venerazione» [20]
. Sebbene vietato, un simile atto non è da considerarsi peregrino a quel tempo. Né si ritiene vada spiegato nei soli termini di un ripristino della crisi del lutto – significato che gli antropologi sono soliti {p. 36}attribuire all’usanza di esporre la salma nei rituali funerari civili. Piuttosto, riprende Sallmann:
Applicati ai santi, i rituali funerari hanno una duplice funzione. Convincere tutti i fedeli che il venerabile appena morto è davvero un santo, che è assiso sin dal momento della morte nella corte celeste, dove gode della visione beatifica, e diviene quindi un intercessore al quale ci si può rivolgere nelle proprie preghiere per sollecitare una grazia. La seconda funzione è ancora più concreta: consiste nell’inventariare le qualità sovrannaturali del corpo e assicurarne la trasmissione, dal corpo vivo a quello morto: funzione altamente strategica, visto che sono in gioco le sorti delle reliquie. Proprio per questo il santo non muore mai [21]
.
Qualità sovrannaturali che erano tanto straordinarie, quanto maggiore era il tempo trascorso tra l’inumazione e l’esumazione della salma. E, nel caso di Francesco, a essere passati erano ben ventun anni. In un simile lasso temporale, nessun corpo avrebbe potuto resistere all’azione disgregante degli agenti naturali. Meglio: nessun corpo naturale. Ma quelle dei candidati alla santità erano carni e ossa uraniche. Esemplificativo, a tal proposito, è un episodio occorso qualche tempo prima la morte di Caracciolo, che lo storico Bradford A. Bouley stralcia dal processo per la canonizzazione di Teresa d’Avila. Quando nel 1583, nella città di Alba de Tormes, un ufficiale religioso del luogo scoperchiò la tomba della mistica spagnola, si trovò al cospetto di un evento eccezionale. La bara in legno era «quasi marcia», nonché «disfatta nella parte frontale». Al di sotto, faceva capolino il feretro di Teresa: del tutto «incorrotto». Riporta lo studioso: «il notaio registrò che il corpo si fosse mantenuto “con una certa, meravigliosa, integrità, rimanendo così flessibile e morbido al tatto, tanto da sembrare che ella fosse viva”» [22]
.
Allorché, a distanza di due decenni, i caracciolini decisero di riesumarlo, sorpresero il corpo di Caracciolo perlopiù {p. 37}ossificato, ma spirante odore e «aria sottile» [23]
. Nonché, come nel caso della santa spagnola, trovarono le assi della bara marce. Nel 1769, sfumati i rancori e in festa per la beatificazione di Francesco, il padre caracciolino Agostino Cencelli riferirà che gli esumanti «restarono meravigliati al vedere quel sacro cadavero dopo il corso di venti anni mantenere ancora in tal luogo l’unghie, i capelli, e l’ossatura del petto intera; quando di più la cassa era tutta fradicia e che toccata andette in polvere» [24]
. Diversamente, alla vista dei tessuti in corruzione avanzata, di scampoli di ossa, larve, vermi e insetti, le cronache del tempo non avrebbero potuto tacere l’orrore. Così come avvenne, stando alla ricostruzione dello stesso agiografo, quando, il 30 luglio del 1628, i religiosi si intrufolarono nella sepoltura comune dei caracciolini per l’esumazione: «ma non vi si poteva così facilmente entrare per lo puzzolente e crasso vapore che tramandava. Era situata nella sagrestia, luogo umidissimo, per cui ancora i cadaveri appena posti si disfacevano [...] onde alcuni [padri], che ancor vi si trattenevano, dovettero frettolosamente uscirne per non lasciarvi la vita» [25]
. Ciò, nonostante gli stomaci barocchi fossero coriacei: non era difficile a quel tempo assistere allo smembramento delle salme dei venerabili; mattanza a cui i fedeli si abbandonavano in uno stato di estatica frenesia – non esclusi, fuor di metafora, veri e propri atti di antropofagia. «I capelli, la barba, le unghie, le dita dei piedi, che a volte venivano staccate a morsi, i calli dei piedi o delle ginocchia, più raramente i denti»: erano queste le parti oggetto di razzia [26]
.{p. 38}
Nel caso di Francesco, nel giugno del 1629, il feretro non fu vittima di un simile accanimento. Per quanto, come groviglio verminoso sul «sacro tumulo», vi fosse una tale quantità di popolo che il cardinale arcivescovo di Napoli, Francesco Boncompagni, «non avendo potuto entrare per la chiesa, gli era convenuto passare per la porta della casa» [27]
. Anch’egli, «personaggio così autorevole», oltre a dare il placet alla cerimonia, prese parte ad essa. Invero, l’appuntamento fu spostato dal 4 all’11 giugno per garantire la presenza del porporato, impegnato com’era nelle celebrazioni per la Pentecoste. Corse a onorare lo scheletro del padre caracciolino che per l’occasione fu esposto in una teca di cristallo [28]
. Mancava solo il viceré: Don Antonio Alvarez di Toledo. All’invito aveva risposto affermativamente, salvo poi tirarsi indietro per sue indisposizioni; nota Vittoria Fiorelli: «uno sgarbo del duca d’Alba che non era certo privo di significato» [29]
. L’assenza dello spagnolo fu colmata da uno scandaglio di devoti napoletani. Dal canto loro, riuscirono a tenere a freno gli appetiti e si limitarono a «gettare de’ fiori sopra la cassa per poi ripigliarseli come consagrati dal contatto di quella»; o, al più, a «raccorre i pezzetti de’ cristalli che chiudevano la cassa come sacre reliquie, essendo quelli stati rotti dal tocco frequente delle corone o medaglie» [30]
.
Per i maldicenti, nel quartiere dovettero tornare a risuonare i grugniti che i contemporanei di Pomponio, nel VI secolo, giuravano di sentire. Gorgogli demoniaci che, istruito da una visione mariana, il vescovo della città mise a tacere sotto il peso della pietra: nel 533 edificò la chiesa di Santa Maria Maggiore [31]
. Dell’antica costruzione, sopravvive oggi
{p. 39}il campanile in laterizio, dal cui fusto a base quadrangolare sguanciano colonne e trabeazioni appartenute a un tempio gentilizio dedicato a Diana [32]
. Rassomiglia a un canino che spunta da terra, dalla mascella fossile della vecchia megera Partenope. Pare che, ancora nel 1623, fosse possibile scorgere sulla guglia del campanile una scrofa di bronzo, ivi puntata a ricordo dell’accaduto [33]
; e che un cronista dell’Ottocento, «nel detto campanile sugli archi de’ quattro finestroni», vedesse affacciarsi gargolle in marmo che ritraevano la testa dello stesso animale [34]
. Non solo, le cronache attestano che in passato il clero soleva andare in processione al Duomo, sgozzare un porco e offrirne le polpe all’arcivescovo della città. L’usanza fu presto soppressa, sebbene, ancora ai tempi della festa del 1629, si continuasse a rendere all’autorità religiosa un ducato in luogo della carne di suino.
Note
[14] AAV, Cause dei Santi, Processus 1888 e 1889.
[15] AAV, Cause dei Santi, Processus 1891.
[16] Stando a C. Piselli, Notizia historica della Religione de’ PP. Chierici Regolari Minori..., In Roma, Nella Stamperia di Giovanni Francesco Buagni, 1710, p. 96, Francesco Caracciolo si spense: «verso le hore ventitrè del mercordì precedente la solennità del Corpo di Christo alli 4 di giugno dell’anno 1608, in età di anni 44».
[17] Analizzando alcune fonti coeve, il computo delle vittime causate dal morbo risulta ondeggiante, dalle «quattrocento sessantamila persone per la città e borghi» di cui lascia memoria, tra il 1655 e il 1656, il segretario dei Bianchi della Giustizia – in S. de Renzi, Napoli nell’anno 1656 ovvero documenti della pestilenza..., Napoli, Tipografia di Domenico de Pascale, 1867, pp. 375-385 – ai «seicentomila» conteggiati un decennio dopo, non senza esagerazioni, da N. Pasquale, A’ posteri della peste di Napoli, e suo regno nell’anno 1656..., In Napoli, Per Luc’Antonio di Fusco, 1668, p. 59. Per un resoconto più recente dei fatti, cfr. R.M. San Juan, Contaminating Bodies: Print and the 1656 Plague in Naples, in M. Calaresu e H. Hills (a cura di), New Approaches to Naples c.1500-c.1800: The Power of Place, Farnham, Ashgate, 2013, pp. 63-78.
[18] I cardinali del Sant’Uffizio manterranno il compito di reprimere o approvare i culti locali almeno fino al pontificato di Urbano VIII (papa dal 1623 al 1644), quando il controllo di questi ultimi passerà definitivamente sotto l’egida della Congregazione dei Riti. Nonostante ciò, gli inquisitori continueranno a supervisionare la nascita dei culti locali alla ricerca di impostori, come accadde nel 1629, in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della morte di Caracciolo. Cfr. M. Gotor, I beati del papa. Santità, Inquisizione e obbedienza in età moderna, Firenze, Olschki, 2002, pp. 127-253 e S. Ditchfield, «Coping With the Beati Moderni». Canonization Procedure in the Aftermath of the Council of Trent, in T.M. McCoog (a cura di), Ite Inflammate Omnia: Selected Historical Papers from Conferences Held at Loyola and Rome in 2006, Rome, Institutum Historicum Societatis Iesu, 2010, pp. 413-439, in particolare p. 424.
[19] J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., pp. 409-410.
[20] ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica B 4 c, nr. 11. Tra le più complete e documentate ricostruzioni dell’accaduto, cfr. V. Fiorelli, I sentieri dell’inquisitore. Sant’Uffizio, periferie ecclesiastiche e disciplinamento devozionale (1615-1678), Napoli, Guida, 2009, pp. 187-193.
[21] J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., pp. 418-419.
[22] B.A. Bouley, Pious Postmortems, cit., p. 58. Circa il punto di vista del popolo e l’esperienza che quest’ultimo faceva dell’inalterabilità delle carni, cfr. J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., p. 381.
[23] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., In Roma, Nella stamperia di Giovanni Zempel, 1769, p. 210.
[24] Ibidem.
[25] Ivi, pp. 210-211.
[26] J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., p. 387. M. Azzolini, Coping with Catastrophe. St Filippo Neri as Patron Saint of Earthquakes, in «Quaderni storici», 52, 3 (2017), pp. 727-750, in particolare p. 734, riporta una memoria di Vincenzo Maria Orsini (Benedetto XIII), secondo cui il pontefice fu risanato completamente dopo aver assunto alcune reliquie del santo: efficaci «più di ogni altro rimedio naturale».
[27] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., pp. 214-215; U. Coldagelli, s.v. Boncompagni, Francesco, in DBI, vol. 11, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1969, pp. 688-689.
[28] Ivi, p. 215.
[29] N. Morrea, Francesco Caracciolo, l’uomo, il fondatore, il santo, cit., p. 89; V. Fiorelli, I sentieri dell’inquisitore, cit., p. 189, n. 23.
[30] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., p. 217.
[31] G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli..., In Napoli, Appresso Giovanni Iacomo Carlino, 1602, p. 367, precisa che la chiesa fu edificata «intorno il 524» e consacrata da papa Giovanni II nel 533.
[32] S. D’Aloe, Storia della chiesa di Napoli provata con monumenti, Napoli, Stabilimento Tipografico, 1861, p. 223.
[33] C. D’Engenio Caracciolo, Napoli sacra..., In Napoli, Per Ottavio Beltrano, 1623, pp. 60-61.
[34] L. Catalani, Le chiese di Napoli. Descrizione storica ed artistica..., 2 voll., vol. I, Napoli, Tipografia fu Migliaccio, 1845, p. 125.