La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c2
A volte sembravano due i cuori
che battevano nel petto della socialdemocrazia, che da un lato si riteneva il
partito della rivoluzione con una chiara coscienza di classe, e dall’altro
sottolineava la sua responsabilità «interclassista» in quanto garante della
democrazia e della Costituzione. A questi due aspetti chiave la destra e la sinistra
interna davano un peso
¶{p. 59}diverso, con il risultato che anche
questo squilibrio impedì la maturazione di un chiaro e soprattutto positivo
atteggiamento nei confronti della rivoluzione. Senza contare che l’innegabile
deficit di contenuti socialisti della rivoluzione offriva continuamente il fianco ad attacchi: dall’esterno ma anche dall’interno
del partito.
3. La ricezione della rivoluzione dopo il 1945
Nella DDR si cominciò a parlare
più tardi di una «rivoluzione borghese» che non aveva potuto evolvere verso una
vittoriosa «rivoluzione proletaria» essenzialmente per due motivi: in primo luogo a
causa della intransigente opposizione «reazionaria» del gruppo dirigente della
«destra socialdemocratica», e in secondo luogo a causa della mancanza di un forte
partito comunista di quadri, come invece era la SED fin dal 1946. Nella eliminazione
di questo deficit il gruppo dirigente della DDR individuò una continuazione e un
completamento della rivoluzione di novembre. Grazie alla costruzione di questa linea
di continuità la rivoluzione del 1918-1919 non tardò ad assumere un rilievo
storico-politico ben maggiore di quello che aveva nella Germania occidentale
[10]
. Nei primi anni della Repubblica federale né la rivoluzione di novembre
né Weimar ebbero un qualche ruolo nel processo di rifondazione della democrazia.
Sulla rivoluzione di novembre, come del resto sulla democrazia weimariana nel suo
complesso, continuava ad allungarsi l’ombra degli eventi del 1933 e in ogni caso
essa non era che l’esempio di un fallimento che non andava certo festeggiato. Anzi,
bisognava fare il contrario: «Bonn non è Weimar»
[11]
, recitava uno slogan che divenne rapidamente proverbiale e che a volte
veniva evocato per tranquillizzare, a volte a mo’ di
ammonimento.¶{p. 60}
Mentre la BRD fu fin
dall’inizio alle prese con il «complesso di Weimar»
[12]
, nell’immediato dopoguerra la rivoluzione del 1918-1919 non fu
sostanzialmente al centro di alcun dibattito. Le cose cominciarono a cambiare solo
nel corso degli anni Cinquanta, e dalle discussioni dell’epoca si evince chiaramente
che sulla prima, prevalente interpretazione più che il contesto postfascista
esercitò un peso determinante il nuovo e assai influente scenario della Guerra
fredda. Nel 1955 uno storico conservatore di Kiel, Karl Dietrich Erdmann, scrisse
per i «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte» un contributo sulla
Geschichte der Weimarer Republik als Problem der
Wissenschaft che all’epoca ebbe una vasta eco e in cui egli sosteneva
la tesi di una decisiva scelta dicotomica tra bolscevismo orientale e democrazia
occidentale che si sarebbe posta tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919. I
socialdemocratici maggioritari si sarebbero trovati davanti alla scelta se avallare
una «rivoluzione sociale d’intesa con forze che puntavano all’instaurazione di una
dittatura proletaria», o consolidare una «repubblica parlamentare d’intesa con le
forze conservatrici e il vecchio corpo degli ufficiali»
[13]
. In seguito lo stesso Erdmann tornò a sottolineare, nel suo non meno
noto Gebhardt. Handbuch der deutschen Geschichte, che all’epoca
si era posta la scelta tra queste «due opposte tipologie di organizzazione politico-sociale»
[14]
. Tertium non datur.
La ricerca di zone grigie e
intermedie, di alternative in merito all’atteggiamento da tenere e di terze vie si
intensificò solo nei due decenni successivi. Mentre gli storici analizzavano nuove
fonti e prendevano visione dei documenti prodotti dai Consigli degli operai e dei
soldati, il conflitto Est-Ovest diminuì di intensità e cominciò una fase di
distensione: il che ¶{p. 61}rese possibile una progressiva presa di
distanza dal modello binario – «aut aut» – di Erdmann. Grande rilievo nel lavoro di
revisione di questa interpretazione assunsero i lavori dello storico Eberhard Kolb
sui Arbeiterräte in der deutschen Innenpolitik 1918-1919
[15]
, e del politologo Peter von Oertzen sui Betriebsräte in der
Novemberrevolution
[16]
. Lavori che, oltre ad evidenziare un quadro differenziato delle diverse
modalità di formazione dei Consigli, furono anche in grado di provare che solo una
piccola minoranza di essi si orientò in senso filo-bolscevico. Alla luce dei
risultati di queste ricerche il timore del gruppo dirigente socialdemocratico in
merito ad un possibile golpe comunista o che potesse darsi una «situazione russa»
appariva esagerato. In quel frangente storico le possibilità di scelta sarebbero
state quindi maggiori e più complesse. Nei Consigli ci sarebbe stato, a livello
latente, un potenziale di democratizzazione – e ora si addossava ai
socialdemocratici di Ebert la responsabilità di non averlo saputo sfruttare. Ma non
furono solo gli studi empirici ed obiettivi di Kolb e Oetzen (anche se quest’ultimo
vi lasciava trasparire il fervore che gli derivava dal suo impegno politico) che
nella seconda metà degli anni Sessanta contribuirono a diffondere una nuova
ricezione della rivoluzione di novembre. Più importante per la diffusione del tema a
livello di opinione pubblica fu con ogni probabilità un cambiamento di opinione,
cambiamento che fino agli anni Settanta avrebbe contribuito a focalizzare in misura
crescente l’attenzione sulle idee dei Consigli e sulla ricerca di nuove vie tra le
grandi alternative politico-sociali. Idee di una terza via tra capitalismo e
comunismo, di democrazia di base e progetti di ogni sorta nel segno dei Consigli
conobbero una vera rinascita. Una parte del movimento del ’68, ad esempio il Club
repubblicano di Berlino ovest, analizzò la «situazione
¶{p. 62}iniziale della rivoluzione di novembre» per trarne i
necessari insegnamenti in vista, così si diceva, di una nuova situazione
rivoluzionaria e per non persistere in «strategie politiche di corto respiro»
[17]
. Rientrato in Germania dopo il lungo esilio americano, il noto teorico
del pluralismo e politologo Ernst Fraenkel si disse preoccupato davanti a queste
tendenze e mise in guardia da un nuovo «mito dei Consigli»
[18]
.
Anche se le sue interpretazioni
non erano certo concordanti, nell’autunno del 1968, vale a dire in occasione del suo
cinquantesimo anniversario, la rivoluzione di novembre era assolutamente presente.
Tutti quelli che ritenevano che con essa fosse andata perduta la concreta
possibilità di avere una democrazia più avanzata o addirittura di dare vita ad una
alternativa socialista nel segno dei Consigli, vedevano i socialdemocratici seguaci
di Ebert e Scheidemann sotto una luce sempre più fosca. Alla diffusione e al
consolidamento di questa fama negativa diede un fondamentale contributo lo storico e
pubblicista Sebastian Haffner, che nel 1968, con una serie di articoli pubblicati su
«Stern» e raccolti in volume l’anno successivo, diede nuova linfa non tanto alla
tesi del fallimento quanto piuttosto a quella del tradimento tout court. Per decenni
il suo lungo saggio sulla «rivoluzione tradita» sarebbe risultato il più richiesto
sul mercato librario della Germania occidentale
[19]
.¶{p. 63}
Storicamente non sostenibile,
una simile tesi apparteneva già allora al regno delle leggende, sicché la sua grande
e persistente influenza appare ancor più incomprensibile. Un’influenza, va detto,
favorita anche dal fatto che la stessa socialdemocrazia non accettava di buon grado
l’eredità di una rivoluzione mai veramente amata. In ogni caso non si poteva
parlare, come del resto già indicava la storia della ricezione della Repubblica di
Weimar, di una sua ininterrotta acquisizione nel bagaglio di tradizioni dell’SPD. La
quale talvolta assumeva un atteggiamento difensivo. Anzitutto non considerava un
risultato positivo il fatto di aver all’epoca sostanzialmente dato la priorità
all’obiettivo della democrazia rispetto a quello del socialismo, e anzi sembrava
quasi vergognarsi per il fatto di aver rinunciato all’utopia socialista. In qualche
caso diede anche l’impressione di aver interiorizzato la tesi del tradimento. Così,
in un articolo pubblicato nel 1968 su «Vorwärts», l’organo del partito, si poteva
leggere che Ebert non aveva certo «tradito consapevolmente i suoi principi
socialdemocratici» ma con la sua «avversione nei confronti di tutti i rivoluzionari»
alla fine «aveva ottenuto come risultato quello di spianare la strada ai nemici
della rivoluzione»
[20]
. Dieci anni dopo l’allora presidente della SPD Willy Brandt lamentò il
fatto che nel tardo autunno del 1918 il suo partito aveva evidenziato una grave
«mancanza di combattività e decisione» e «in un
certo senso era rimasto prigioniero del suo pensiero legalitario»
[21]
.
Nel decennio successivo le
critiche aumentarono. Stando alla «Berliner Stimme», l’organo della SPD, nel
1918-1919 il gruppo dirigente del partito aveva totalmente rinunciato ad operare per
un attivo cambiamento della organizzazione politico-sociale e alla fine non aveva
voluto altro che «pace e ordine». A differenza di Ebert e dei suoi compagni, così
ancora il giornale, Rosa Luxemburg poteva essere considerata una delle «poche figure
storico-politiche» sulla cui eredità si poteva
«legittima
¶{p. 64}mente fondare in questo Paese una tradizione democratica»
[22]
. Un simile approccio, tuttavia, non ottenne solo consensi, tanto che nel
1986-1987 un gruppo di socialdemocratici conservatori riuniti intorno all’ex
borgomastro Dietrich Stobbe si oppose, in un documento di lavoro, alla
partecipazione del partito ad una pubblica assemblea commemorativa in onore di
Luxemburg e Liebknecht. A loro giudizio, un riferimento a Rosa Luxemburg sarebbe
tornato «poco utile» al sostegno delle posizioni politiche del partito; e con toni
insolitamente offensivi aggiunsero: «I socialdemocratici hanno contribuito in modo
decisivo alla fondazione della prima democrazia tedesca e alla sua salvaguardia con
tutte le loro forze, e lo hanno fatto anche accettando la divisione del movimento operaio»
[23]
.
Note
[10] Si veda J. John, Das Bild der Novemberrevolution 1918 in Geschichtspolitik und Geschichtswissenschaft der DDR, in H.A. Winkler (ed), Weimar im Widerstreit. Deutungen der ersten deutschen Republik im geteilten Deutschland, München, Oldenbourg, 2002, pp. 43-84.
[12] S. Ullrich, Der Weimar-Komplex. Das Scheitern der ersten deutschen Demokratie und die politische Kultur der frühen Bundesrepublik 1945-1959, Göttingen, Wallstein, 2009.
[13] K.D. Erdmann, Die Geschichte der Weimarer Republik als Problem der Wissenschaft, in «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 3, 1955, pp. 1-19, qui p. 7.
[14] K.D. Erdmann (ed), Das Zeit der Weltkriege, in Gebhardt. Handbuch der deutschen Geschichte, IV, Stuttgart, Klett-Cotta, 1959, p. 85.
[16] P. von Oertzen, Betriebsräte in der Novemberrevolution. Eine politikwissenschaftliche Untersuchung über Ideengehalt und Struktur der betrieblichen und wirtschaftlichen Arbeiterräte in der deutschen Revolution 1918/19, Düsseldorf, Droste, 1963; si veda anche, sul punto, P. Kufferath, Peter von Oertzen 1924-2008. Eine politische und intellektuelle Biografie, Göttingen, Wallstein, 20182, pp. 266-277.
[17] Der 9. November 1918. Materialien zur Ausgangslage der November revolution. Pubblicazione a cura del gruppo di lavoro «La situazione rivoluzionaria del 1918/19» (Republikanischer Club Westberlin, Berlino, novembre 1968), p. 1.
[18] E. Fraenkel, Rätemythos und soziale Selbstbestimmung. Ein Beitrag zur Verfassungsgeschichte der deutschen Revolution, in E. Fraenkel, Deutschland und die westlichen Demokratien, Stuttgart et al., Kohlhammer, 19735, pp. 69-100.
[19] S. Haffner, Die verratene Revolution. Deutschland 1918/1919, Bern et al., Scherz, 1969; edizione più recente: dello stesso autore, Die deutsche Revolution 1918/19, Reinbek b.H., Rowohlt, 2018; si veda anche W. Niess, Die Revolution von 1918/19 in der deutschen Geschichtsschreibung. Deutungen von der Weimarer Republik bis ins 21. Jahrhundert, Berlin - Boston, De Gruyter, 2013, pp. 489-494; come decisiva risposta ad Haffner cfr: L.-B. Keil - S.F. Kellerhoff, Lob der Revolution. Die Geburt der Demokratie in Deutschland, Darmstadt, Konrad Theiss Verlag, 2018.
[20] H. Potthoff, Aktion der Arbeiter und Soldaten gegen Obrigkeit und Militarismus, in «Vorwärts», 8 novembre 1968, p. 20.
[23] Rosa Luxemburg e i socialdemocratici. Un documento di lavoro dell’SPD berlinese, in D. Dowe (ed), Arbeit am Mythos Rosa Luxemburg: braucht Berlin ein neues Denkmal für die ermordete Revolutionärin?, Bonn, Historisches Forschungszentrum, 2002, pp. 25-30, qui pp. 29 s. (pubblicato la prima volta in «Der Tagesspiegel», 19 febbraio 1987).