La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c2
Una critica del genere appare
senz’altro giustificata ma è necessario aggiungere alcune precisazioni in merito alle
motivazioni che furono alla base di questo errore. Anzitutto, va sottolineato che
l’alleanza con le vecchie forze armate non aveva certo come scopo quegli eccessi di
violenza che avvelenavano senza posa il clima politico-culturale, ma il ripristino del
monopolio statale della forza; a ciò si aggiunga che era anche necessario favorire una
ordinata smobilitazione dell’esercito dopo quattro anni di guerra. Occorre considerare,
infine, che su questo terreno nes
¶{p. 54}suno – obiettivamente – poteva
vantare una qualche specifica competenza. Una inesperienza di fondo cui inoltre si
dovette il mantenimento in servizio nella pubblica amministrazione di troppi
«professionisti». Il timore del caos era molto diffuso e favorì più continuità di quella
che alla fine sarebbe tornata effettivamente utile alla sicurezza della repubblica.
Se oltre al potere, mai venuto
meno, delle vecchie élite e al peso dei militari si considerano anche le inappagate
aspirazioni di socialismo, non c’è dubbio che il bilancio presenta anche aspetti
negativi, tanto che, comprensibilmente, si è parlato di rivoluzione «a metà» o «bloccata»
[4]
. Di una rivoluzione completamente riuscita, al contrario, potrebbero parlare
solo quelli che utilizzano come unico e decisivo metro di misura il cambiamento della
forma di Stato e l’adozione di una nuova Costituzione. Il giudizio su questa come su
altre rivoluzioni, quindi, dipende in buona sostanza dalle aspettative che essa suscitò.
Proprio a causa del clima di violenza quasi da guerra civile e degli omicidi compiuti da
terroristi di destra che caratterizzarono le fasi iniziali della Repubblica di Weimar, e
non da ultimo anche a causa delle modalità con cui avvenne la sua caduta nel 1933, la
rivoluzione (ma anche Weimar) ha conservato nel tempo un’immagine nel complesso
negativa. Il che ha praticamente impedito la percezione dei positivi risultati che essa
ha comunque conseguito aprendo la strada ad una democrazia liberale e sociale in
Germania.
Le celebrazioni per il giubileo del
centenario (2018-2019) hanno spinto a formulare una chiara narrativa, in un certo senso
ad appianare la storia. Per lo meno i titoli di alcune
recenti trattazioni generali – «All’inizio era violenza» o «Il vero inizio della nostra
democrazia» – riflettono questa esigenza di maggiore linearità interpretativa
[5]
. Esse propongono delle ¶{p. 55}nuove metanarrazioni e delle
idee-guida per districare la trama storica liberandola dalla sua fastidiosa ambivalenza.
In realtà, la rivoluzione di novembre si presenta come un complicato insieme di eventi,
che nella storia della democrazia tedesca serve a poco considerare sia come un caso di
scuola sia come un chiaro deterrente. Proprio a causa della sua ambiguità, del suo
miscuglio di vecchio e nuovo, dei suoi risultati e dei suoi fallimenti la rivoluzione di
novembre si è imposta sin dall’inizio come un tema assai controverso e divisivo. In ogni
caso il suo esempio appare quanto mai utile per studiare i diversi concetti di
democrazia e i diversi ordinamenti politici, ma anche per apprendere qualcosa sulle
speranze e le paure di una società che venne a trovarsi nel bel mezzo di una crisi di
cui non conosceva la via di uscita.
2. Le valutazioni dei contemporanei sulla rivoluzione
La rivoluzione di novembre non
lasciò indifferente quasi nessun contemporaneo, sebbene già dopo poco tempo fossero
rimaste ben poche tracce della euforia che l’aveva inizialmente accompagnata. Ne
sono una prova esemplare le controverse prese di posizione degli intellettuali sia
di destra che di sinistra. Sulla «Weltbühne», che durante la Repubblica di Weimar fu
la tribuna più importante degli intellettuali di sinistra non direttamente legati ai
partiti schierati su questo versante, Kurt Tucholsky si lamentò per una rivoluzione
che in realtà non aveva sostanzialmente avuto luogo: «Non c’è stata alcuna
rivoluzione. Fatene una», scrisse nel marzo del 1920, poco dopo il putsch Kapp-Lüttwitz
[6]
. Tucholsky non smise mai di criticare duramente Ebert, il quale, a suo
parere, non aveva fatto altro che mettere la sordina a tutte le speranze
rivoluzionarie e in fondo aveva ¶{p. 56}strettamente collaborato con
le forze reazionarie. Un giudizio che egli ritenne di non dover modificare nemmeno
in occasione della morte del leader socialdemocratico: un giudizio duro e senza
appello ben riassunto da questa frase: «Traditore della classe operaia e dell’idea
stessa di rivoluzione»
[7]
.
Se in linea di principio da
sinistra ci si potevano aspettare parole di sostegno per i socialdemocratici al
governo, diverso fu il comportamento che tenne la destra. Da un Oswald Spengler era
lecito aspettarsi una dura invettiva, e fu quel che in effetti avvenne. Con il suo
fortunato Preußentum und Sozialismus (1919) egli sparse odio a
piene mani contro una rivoluzione «non tedesca» che era un «colpo di mano del nemico
inglese» collegato ad una «sollevazione del proletariato marxista», senza peraltro
che al riguardo si potesse parlare di «vero socialismo». Un socialismo del genere,
così come aveva vissuto, apparentemente, un momento di risveglio nell’agosto del
1914, lo si era potuto trovare «nell’ultima lotta al fronte», ma lì era stato anche tradito
[8]
.
Per quanto diverse fossero le
loro motivazioni, entrambi gli autori lanciarono dunque un’accusa di tradimento
all’indirizzo della rivoluzione: tradimento nei confronti dei lavoratori da parte
dell’uno, nei confronti della nazione tanto pronta a combattere quanto vittoriosa da
parte dell’altro. E al di là di tutte le differenze avevano anche qualcos’altro in
comune: entrambi erano contrari a ‘questa’ rivoluzione, la rivoluzione di novembre,
ma non alla rivoluzione in quanto tale. Nella interpretazione di sinistra la
rivoluzione dell’autunno del 1918 rappresentava nel migliore dei casi il preludio di
un cambiamento ancora da portare a termine e che in ogni caso avrebbe dovuto essere
ben più incisivo: una rivoluzione politico-sociale che non doveva limitarsi, questa
l’accusa, a rinnovare la facciata democratica. Nella interpretazione di destra la
rivoluzione di novembre non era che un «tradimento del Paese», un evento in grado di
¶{p. 57}distruggere la «comunità di popolo» e al quale bisognava
contrapporre un vero «socialismo» – «tedesco» o «prussiano» – nel solco di una «rivoluzione nazionale» o «conservatrice». Mentre
da una parte si voleva portare a compimento una rivoluzione finora fallita o dagli
esiti quanto meno parziali, dall’altra si puntava alla completa eliminazione di una
rivoluzione che si riteneva effettivamente avvenuta al fine di favorire da destra il
risveglio nazional-rivoluzionario della Germania.
Non furono solo le voci più o
meno percettibili degli intellettuali che contribuirono fin dall’inizio e
ostinatamente a minare la rivendicazione di validità della rivoluzione di novembre,
ma anche e soprattutto quei partiti politici che si erano opposti con decisione e
sin da subito alla Repubblica di Weimar. Fondato tra la fine del 1918 e l’inizio del
1919, il partito comunista non tardò a rilanciare con forza l’accusa di «tradimento
dei lavoratori» all’indirizzo dell’SPD maggioritaria guidata da Ebert: un’accusa che
a partire dagli scontri di gennaio («sollevazione spartachista») e dopo l’assassinio
di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht venne fissata col sangue. Disponibilità all’uso
della violenza, intransigenza ideologica e radicalismo verbale provocarono una
spaccatura all’interno della sinistra e inasprirono all’estremo il conflitto di
fondo tra democrazia parlamentare e socialismo dei Consigli.
Mentre i comunisti volevano
continuare la rivoluzione politica per mezzo di una rivoluzione sociale e quella
borghese tramite una rivoluzione proletaria, i nazionalsocialisti, per parte loro,
scagliarono contro la rivoluzione di novembre un vero e proprio anatema. Presero
duramente posizione contro la «repubblica di novembre», i «politici di novembre» e i
«criminali di novembre» che a loro dire nel 1918 avevano colpito alle spalle un
«esercito invitto sul campo» e avevano quindi provocato la vergognosa sconfitta del
Paese.
La «tesi della pugnalata alla
schiena» si diffuse ben oltre i circoli nazisti e venne fatta propria anche dal
milieu politico-culturale conservatore. Sta di fatto che la sua aura negativa
esercitò una tale influenza che ogni ricordo positivo della rivoluzione finì per
dissolversi. ¶{p. 58}
Ma di che tenore furono le
valutazioni di quelle forze che avevano considerato la rivoluzione di novembre il
punto di partenza per la nuova democrazia parlamentare della Repubblica di Weimar?
In che modo la costruzione della tradizione si tradusse in punto di vista
affermativo? In modo tutt’altro che semplice e chiaro, come nel 1928 avrebbero
provato le diverse opinioni in merito al modo «giusto» di celebrare il decennale
della rivoluzione. Tra i socialdemocratici la data del 9 novembre era già da tempo
la giornata della rivoluzione ed era in concorrenza con l’11 agosto, vale a dire la
giornata della Costituzione, che l’allora presidente del Reich Ebert aveva
controfirmato nel 1919 proprio in quella data. Una certa lacerazione interna emerse
anche nel 1928, quando il Reichsbanner – l’associazione paramilitare creata per
difendere le istituzioni della repubblica che era controllata dai socialdemocratici
– festeggiò la fondazione della repubblica con le bandiere nere-rosse-oro, mentre
l’SPD organizzò al palazzo dello sport di Berlino una manifestazione nel corso della
quale furono invece le bandiere rosse a dominare la scena. Se l’oratore che prese la
parola alla manifestazione organizzata dal Reichsbanner per festeggiare la «nascita
della repubblica» elogiò la responsabilità istituzionale e democratica della
socialdemocrazia che «in qualche caso senza riguardo per gli interessi del partito»
si era spinta «fino all’estremo limite del sopportabile», Wilhelm Dittman, l’oratore
che prese la parola alla manifestazione della SPD, usò invece toni da lotta di
classe, che non a caso furono accompagnati dal canto corale dell’«Internazionale»
[9]
.
A volte sembravano due i cuori
che battevano nel petto della socialdemocrazia, che da un lato si riteneva il
partito della rivoluzione con una chiara coscienza di classe, e dall’altro
sottolineava la sua responsabilità «interclassista» in quanto garante della
democrazia e della Costituzione. A questi due aspetti chiave la destra e la sinistra
interna davano un peso
¶{p. 59}diverso, con il risultato che anche
questo squilibrio impedì la maturazione di un chiaro e soprattutto positivo
atteggiamento nei confronti della rivoluzione. Senza contare che l’innegabile
deficit di contenuti socialisti della rivoluzione offriva continuamente il fianco ad attacchi: dall’esterno ma anche dall’interno
del partito.
Note
[4] V. Ullrich, Die halbe Revolution. Warum der demokratische Aufbruch von 1918 sein Scheitern bereits in sich barg, in «ZEIT Geschichte», 3, 2008, pp. 16-30; E. Kolb, 1918/19: Die steckengebliebene Revolution, in C. Stern - H.A. Winkler (edd), Wendepunkte deutscher Geschichte 1848-1990, nuova edizione, Frankfurt a.M., Fischer, 2003, pp. 99-125.
[5] Così M. Jones, Am Anfang war Gewalt. Die deutsche Revolution 1918/19 und der Beginn der Weimarer Republik, Berlin, Propyläen, 2017; W. Niess, Die Revolution von 1918/19. Der wahre Beginn unserer Demokratie, Berlin, Europa Verlag, 2017. Sulla storiografia attuale della rivoluzione si veda anche A. Gallus, Zum historischen Ort der deutschen Revolution von 1918/19 – ein Wendepunkt in der Gewaltgeschichte?, in «Jahrbuch Extremismus und Demokratie», 31, 2019, pp. 13-39.
[9] Entrambi gli interventi sono riprodotti in F. Schubart, Zehn Jahre Weimar – Eine Republik blickt zurück, in H.A. Winkler (ed), Griff nach der Deutungsmacht. Zur Geschichte der Geschichtspolitik in Deutschland, Göttingen, Wallstein, 2004, pp. 134-159, qui p. 145.