La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c12
Per Ebert e Rudolf Nadolny, uno
suoi più stretti collaboratori, la foto documentava invece la consapevole apparizione
sulla scena di un nuovo ordine i cui rappresentanti avevano deciso di abbandonare gli
usi cerimoniosi di un tempo in favore di un atteggiamento più vicino al popolo, e
inoltre, oltre ad essersi
¶{p. 274}limitati a sostituire sorpassati
costumi da bagno con altri più moderni, non ritenevano di doversi nascondere per il
fatto di aver incontrato i bambini di una colonia estiva. Se la si osserva con più
attenzione la foto non mostra la goffaggine repubblicana ma evoca piuttosto lo scontro
di due culture, non diversamente da come sarebbe accaduto mezzo secolo più tardi quando
Willy Brandt si inginocchiò a Varsavia rompendo in tal modo, tra lo sconcerto del suo
entourage, una consolidata prassi politico-diplomatica.
Il nuovo ordine repubblicano scelse
deliberatamente una reale sobrietà in luogo di un ostentato decoro. Nella repubblica
rappresentata da Ebert non c’era posto per fotografi di corte e foto finte o artefatte,
ma si cercò per quanto possibile di prendere le distanze dal modo in cui la passata
monarchia si era rappresentata – dopo il Medienkaiser (imperatore
mediatico) Guglielmo II il presidente del lavoro Ebert,
che rimase fedele al suo credo dell’instancabile adempimento del dovere letteralmente
fino alla morte, che avvenne nel febbraio del 1925 a causa di una appendicite
trascurata. Diversamente che nel caso dell’ultimo monarca del casato degli Hohenzollern,
non ci sono riprese filmate del primo presidente repubblicano, ma quando in quel giorno
di giugno del 1919 incontrò casualmente un fotografo sulla spiaggia di Haffkrug (mar
Baltico) non avrebbe potuto rispondere alla richiesta di questi con un no perché se lo
avesse fatto avrebbe compromesso quella che a suo giudizio era l’autorità del suo
incarico: il presidente di una democrazia, in altre parole, non poteva nascondersi –
form follows function, anche in politica
[19]
. Con la sua appassionata scelta in favore della sobrietà, alla fine la
repubblica soccombette al tanto più suggestivo visual language dei
suoi avversari. La debolezza che ne emergeva, tuttavia, più che il risultato della
irresolutezza politica degli attori era la conseguenza di una insufficiente
disponibilità all’integrazione dei destinatari
[20]
. ¶{p. 275}L’ambigua e pallida autorappresentazione della
repubblica trova una spiegazione in questo atteggiamento di fondo di una società
weimariana frammentata e demoralizzata più che nella insufficiente propensione ad agire
dei suoi rappresentanti politici.
4. La nuova coscienza di sé della Repubblica federale
La riabilitazione della Repubblica
weimariana che ha avuto luogo negli ultimi anni ed è tuttora in corso può essere
valutata sulla scorta di quest’unica, diversa interpretazione di un documento dell’epoca
finora utilizzato a sostegno della inettitudine della democrazia weimariana in tema di
autorappresentazione. Ma siamo di fronte a qualcosa di più di una nuova interpretazione,
interessante ma di breve durata, avanzata in occasione di un giubileo. In sostanza essa
testimonia di un latente cambiamento della coscienza di sé della Repubblica federale
così come si è venuta sviluppando negli ultimi quarant’anni. A questa immagine di sé è
corrisposta una narrazione che, con l’eccezione dell’estremismo di destra, ha superato
le tradizionali divisioni politico-partitiche e si sostanzia in un deciso distacco dal
fatale passato tedesco e dal continuo confronto con esso. Niente può testimoniare la sua
progressiva ascesa a nuovo paradigma identitario e a raison d’être
della Repubblica federale meglio del discorso sulla disfatta tedesca come
liberazione che il presidente Richard von Weizsäcker ha tenuto l’8 maggio del 1985.
Rafforzata dal crollo della DDR e dalla successiva riunificazione del Paese, la nuova e
più grande Repubblica federale ha ritenuto di possedere una base valoriale di fatto
intangibile e inclusiva di tutte le correnti politiche e sociali che ha
interiorizzato la lezione, dolorosamente elaborata,
della storia con spirito di missione in politica estera, e grazie ad anniversari,
monumenti commemorativi e luoghi del ricordo conferma una coscienza di sé che mira a una
¶{p. 276}rottura catartica anziché a una mimetica continuità. Il focus
del ricordo tedesco del passato nell’ultimo scorcio del secolo XX si è spostato dalle
ragioni dell’ascesa nazista alle cause della frattura della civiltà ad opera dei
nazisti, dalla presa del potere da parte di Hitler all’Olocausto. Ma con il prevalere di
questo angolo di osservazione la Repubblica di Weimar passò inevitabilmente in secondo
piano. Sebbene i suoi quattordici anni di durata rappresentino, unitamente alla breve
speranza suscitata dal movimento del 1848, il nucleo principale della tradizione
repubblicana in Germania, a lungo questo lasso di tempo non è riuscito a trovare, in una
narrazione concentrata più sulla elaborazione critica che sulla trasmissione di eventi
gloriosi, un posto stabile nel «mercato» dell’accertamento del passato della nazione.
In sostanza, il ritorno di Weimar
al centro delle nostre riflessioni è la prova di una nuova incertezza tedesca: possiamo
veramente essere così sicuri dei nostri valori come lo eravamo quaranta anni fa? Abbiamo
veramente e definitivamente interiorizzato la presunta «lezione della storia», come
riteniamo sulla scorta della pluridecennale elaborazione critica soprattutto della
rottura di civiltà ad opera dei nazisti ma anche della dittatura comunista, e come ogni
anno festeggiamo in occasione dell’anniversario della liberazione dal giogo della
dittatura? Anche la nostra narrazione democratica sta cambiando e riserva nuovamente un
posto legittimo a Weimar perché l’imprevista esperienza di un futuro aperto davanti a
noi richiede un riorientamento sul piano storico. Il nuovo sguardo su Weimar non celebra
solo il trionfo di un luminoso presente su un oscuro passato alla fine del XX secolo, ma
si concentra sulle circostanze storiche che possono compromettere il progetto
democratico e il suo futuro. Esso compensa la scossa convinzione circa la definitiva
rottura con un passato dittatoriale mediante nuove linee di continuità che illuminano la
rivoluzione di novembre come inizio della nostra democrazia e ripropongono Weimar come
un modello sottovalutato di democrazia liberale. In questo risiede la vera importanza
della prima repubblica tedesca in relazione al presente: nel fatto che essa funziona
come uno specchio storico che certifica il cambio di paradigma dalla
¶{p. 277}certezza alla fragilità che va delineandosi come la nuova
grande narrazione in tema di democrazia
[21]
.
Note
[19] D. Dowe (ed), Friedrich Ebert 1871-1925. Vom Arbeiterführer zum Reichs- präsidenten, Bonn - Heidelberg, Friedrich-Ebert-Stiftung, 1995, p. 68.
[20] Cfr. A. Heffen, Der Reichskunstwart – Kunstpolitik in den Jahren 1920-1933. Zu den Bemühungen um eine offizielle Reichskunstpolitik in der Weimarer Republik, Essen, Die Blaue Eule, 1986, p. 128; G. Laube, Der Reichskunstwart. Geschichte einer Kulturbehörde 1919-1933, Frankfurt a.M. - New York, Peter Lang AG, 1997, pp. 61 ss.
[21] Si vedano a titolo di esempio gli allarmati commenti della pubblicistica politica dopo le elezioni del 2017 in merito alla formazione del governo: «C’è un aspetto che il fallimento delle trattative Giamaica [per la formazione di un governo nero-giallo-verde] hanno evidenziato con grande chiarezza: la rapidità con cui anche una democrazia consolidata come la nostra può essere condizionata nel suo funzionamento. Per la prima volta nei settant’anni di storia della Repubblica federale i politici eletti e i partiti non sono in grado di dare vita a una coalizione secondo la normale prassi politico-istituzionale e in tempi definiti. Questa non è ancora una crisi dello Stato, e Berlino è ben lungi dall’essere Weimar, ma resta comunque il fatto che siamo alle prese con una vera crisi con riguardo alla formazione democratica del governo». A. von Lucke, Nach Jamaika: Die fragile Demokratie, in «Blätter für deutsche und internationale Politik», 12, 2017, pp. 5-8, qui p. 5.