A scuola di dissenso
Storie di resistenza al confino di polizia (1926-43)
Quando il fascismo si voleva liberare di persone sospette, ma sulle quali
non esistevano accuse formali, applicava la legge del confino. Tra il 1926
e il 1943 furono circa 15.000 gli italiani condannati al confino di polizia,
tra loro diverse migliaia di antifascisti. I più pericolosi venivano relegati
nelle isole. Costretti all’immobilità dal regime, gli antifascisti cercavano
strumenti per restare fermi ma non inerti. Nelle colonie di confino si
istituirono mense e biblioteche, scuole e cooperative: si studiava, si
leggeva, si discuteva, si elaboravano documenti, come nel più animato
dei congressi politici. Mentre nel resto del paese gli spazi di libertà
si restringevano fino a scomparire, nelle isole di confino si andava a
chiedere consiglio, si portavano notizie e informazioni, che venivano
studiate, vagliate, confrontate e integrate le une con le altre, vanificando
così l’essenza stessa della punizione che il regime aveva voluto dare.
Per una generazione intera di antifascisti, il confino rappresentò una
tappa cruciale nella costruzione di sé. Il loro agire sarà anche, almeno
simbolicamente, premessa per l’edificazione della Repubblica.