Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c3
Era qui, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, che Carlo era tornato «alli due d’aprile in circa del medemo anno millesettecento cinquantatré» [196]
; dopo che, risanato, se ne era partito dalla città partenopea «col padre provinciale di Napoli, e altri padri locali», in data «ventinove marzo millesettecento cinquantatré» [197]
. Subito dopo la sua
{p. 189}comparizione al processo napoletano super miraculis che lo vide protagonista – come ricorderà l’anno dopo, nel 1762, dinanzi ad altri giudici [198]
.
Nel 1761 Carlo aveva ormai «anni trenta in circa» [199]
. Diverso tempo, ricordava, era trascorso dalla sua vestizione all’ordine. Fino a quel momento, aveva continuato a vivere da regolare: nella povertà religiosa, lontano dalla morsa dei tribunali penali e dell’Inquisizione. Per quel che poté: «ho avuto qualche calunnia da secolari», riconobbe, «la quale però è stata sconosciuta da miei superiori» [200]
. Le fonti non approfondiscono ulteriormente la questione; è possibile, tuttavia, che il miracolo lo avesse sovraesposto e reso inviso a molti. Oneri della fama.
Aprì così la sua testimonianza: «Giunto in Roma alli due d’aprile in circa del medesimo anno millesettecento cinquantatré, mi trattenni in Roma nel collegio de santi Vincenzo, ed Anastasio sin alli ventinove in circa d’aprile dell’anno millesettecento cinquantasei» [201]
. Nei tre anni trascorsi lì, in piazza Trevi, nella chiesa adiacente alla fontana, al tempo non ancora inaugurata (lo sarà nel 1762), «feci lo studio di teologia», riferì [202]
; impegno che condusse sotto la guida di Lazzaro Mongiardini, come si può dedurre incrociando le fonti. Sarà lo stesso teste a citarlo di lì a poco; nonché – in data «28 giugno 1767», proprio «dal collegio de’ santi Vincenzo e Anastasio a Trevi» – il padre firmerà un’Approvazione a La Pretesa filosofia de’ moderni increduli col titolo di «lettore di sacra teologia». L’opera, pubblicata come anonima (1767), consisteva in una parafrasi di Tommaso Maria Mamachi, consultore della Congregazione dell’Indice, all’Instruction pastorale sur la prétendue philosophie des incrédules modernes (1763), di Jean-Georges Lenfranc de Pompignan [203]
. In essa, il vescovo francese si proponeva di {p. 190}«divulgare gli errori dei philosophes» [204]
. Nota, a ragione, Patrizia Delpiano che
tradurre i testi dell’antiphilosophie d’Oltralpe, sostituendo un autore individuale, spesso anonimo, con una sorta di impresa collettiva, legata alla Chiesa cattolica, significava per le gerarchie ecclesiastiche, che operassero nei vertici romani o nelle sedi vescovili della penisola [...] intervenire nel dibattito sul ruolo del filosofo orientandolo in direzione dei limiti che costui doveva porre alla libertà di pensiero e di stampa [205]
.
Uno spostamento di baricentro, dalla «censura» al «governo», che si concretizzerà nel passaggio dall’applicazione di «tecniche repressive a quelle persuasive», e che giungerà a compimento solo negli ultimi decenni del Settecento [206]
. Nel frattempo, la parafrasi di Mamachi si può dire rappresentasse una delle prime voci di quella che Piero Gobetti definirà la «controenciclopedia preventiva» cattolica [207]
.
Quel che più di tutto interessa, però, è quanto Carlo comunicò ai giudici subito dopo: «continuai nella mia perfetta salute» [208]
. In molti avrebbero potuto attestarlo, dal sig. dottor Vignati, medico di casa de Vivis, al sig. dottor Guglielmi, medico ordinario del collegio romano – se solo, quest’ultimo, fosse stato ancora vivo: perché «si dice defonto» [209]
. Pure, lo avrebbero potuto confermare «molti miei correligiosi {p. 191}coi quali coabitavo in detto collegio e specialmente il padre Francesco Maria Cavalli, padre Bartolomeo Foscarini, padre Lazzaro Mongiardini, ed altri» [210]
; infine, «quelli di mia casa», in special modo i fratelli Don Gaetano e Giovan Battista de Vivis [211]
.
L’aura di benessere fisico, con cui il venerabile aveva circonfuso Carlo, presto si sbriciolò. Non superò il «mese di luglio millesettecento cinquantacinque», quando la salute del giovane fu nuovamente messa a dura prova [212]
. Nel pieno dell’estate, ebbe:
diversi incommodi e furono primieramente una suffogazione in diverse parti del corpo, che mi caggionava prorito e molestia; nello stesso tempo, mi sopravvenne nel ginocchio destro un tumore della grandezza d’un ovo in circa, che nel suo principio mi causò gran dolore e febre continua, che perseverarono fin a tanto che il detto tumore venne a suppurazione. Continuò il detto tumore prima di suppurare per otto o diece giorni [213]
.
Ancora una volta, Carlo fu sfiancato da febbre persistente. La causa fu attribuita a un «tumore» che aveva portato a un ascesso purulento – «bugno» o «cicolino» lo nominerà più tardi – che si manifestò sul ginocchio destro e che durò otto-dieci giorni prima di giungere a suppurazione [214]
. Si aggiungeva un intorpidimento delle membra e un prurito diffuso per tutto il corpo, che lo faceva impazzire [215]
.
Fu il dottor Guglielmi, venuto in collegio per seguire un altro degente, a visitarlo. Lo affidò alle mani di Benedetto Tomati, chirurgo del collegio e «sostituto» presso l’ospedale di San Giacomo degli Incurabili, a Campo Marzio, come si ricava nelle Istruzioni teorico-pratiche criminali di Filippo Mirogli, pubblicate a Roma qualche anno dopo (1758-59) [216]
. {p. 192}Il chirurgo, ricordò de Vivis, «mi ci applicò un cerotto che disse suppuratorio. Giunto alla suppurazione, l’aprì con la lancetta, e susseguentemente continuò la cura con l’applicazione di un cerotto a me incognito fino a tanto che perfettamente risanò» [217]
. Anche il tumore, al pari dell’emottisi (o dell’ulcera gastrica) rientrò. Non col dito di Dio, ma grazie alla lancetta del chirurgo. Lancetta e cerotti: cure naturali.
Restava importante ribadire che:
tanto il medico Guglielmi, che il chirurgo Benedetti, attribuirono detta suffogazione e deposizione fatta nel ginocchio a calore, come presentemente mi pare. Né mai intesi che poi fosse attribuita tanto la suffogazione che il tumore al male e mali che aveva sofferti in Napoli e da quali ero stato risanato miracolosamente per intercessione del nostro fondatore [218]
.
Distinguere la causa, l’origine e la natura dei due morbi, significava escludere la recidività dell’antica infermità. Quindi rafforzare l’idea che la cura santifica, che si verificò nel 1752, fosse in tutto e per tutto perfetta. Proprio come sostennero de Iorio, i Chierici Regolari Minori e il perito pro miraculo, Isidoro Bacchetti. Né connessa ai due morbi poteva dirsi la malattia che tornò a insidiare il già due volte risanato. Nel mese di dicembre 1755, «fui sorpreso da una febre che mi durò dodici giorni» [219]
. Questa volta intervenne direttamente «il dottor Vignati di mia casa, il quale mi fece fare diversi lavationi e mi applicò alcuni pomenti per i doloretti di corpo che avevo, mi fece cavar sangue dal chirurgo Benedetto. Dottor Vignati attribuì la febbre e i giramenti di testa all’aria» [220]
. Di nuovo, la guarigione fu rapida a guadagnarsi per via naturale.
Nonostante tutto, le sventure non accennavano a finire. Così, Carlo, liberatosi da una malattia, ne ricadeva in un’altra. Lo si apprende dalle carte del processo per la beatificazione e canonizzazione di Francesco Caracciolo che si tenne a {p. 193}Camerino, l’anno seguente, e in cui de Vivis vestiva ancora una volta – l’ultima, da quel che è dato sapere – i panni del teste. Era sabato 6 marzo 1762. L’ora, la solita: «vigesima [16 PM]» [221]
. Ad ascoltarlo, Francesco Vivani, vescovo di Camerino e Fabriano [222]
, e Filippo Ottaviani, cursore deputato nella causa di Caracciolo [223]
. Entrambi disposti al centro della cappella del palazzo episcopale, nella cattedrale del borgo collinare, arroccato tra le valli del Chienti e del Potenza [224]
.
Nei verbali, il nome del giovane è riportato come patris Caroli de Vivis Clericorum Regularium [225]
; significava che, a quella data, aveva conseguito i voti da sacerdote. Così, difatti, si presentò: «mi chiamo Carlo de Vivis, romano d’anni trenta in circa [...] sono sacerdote professo della religione de’ Chierici Regolari Minori» [226]
.
Girandolava da almeno tre anni nei pressi di Camerino, nei cui paraggi risiedeva. Precisò: «alli venti di gennaio dell’anno millesettecento cinquantanove giunsi destinato da miei superiori nella casa, o collegio di Santa Maria delle Macchie della terra di San Ginesio, diocesi di questa città di Camerino»; un’abbazia benedettina, umida e angusta, abbarbicata come muschio sulla schiena di un monte [227]
. Qui vi rimase «sino li 6 maggio millesettecento sessantuno» [228]
. A eccezione di qualche incursione in città, convocato in qualità di teste per un’altra causa: «giudiciale», questa volta [229]
. «Aveva in questo tribunale un mio fratello Giambattista de Vivis» [230]
. Per amore fraterno, calava dalla rupe, lungo la strada sassosa «in malsicura pendenza»; si imboscava tra le querce, nella macchia – da cui, probabilmente il santuario
{p. 194}prendeva il nome – e valicava valli; ruscellava tra gole e forre; quindi varcava le porte della città «per insistere presso il difensore che la patrocinasse [la causa] con attenzione e diligenza» [231]
. A Camerino vi rimase «fino al mese di settembre del detto anno, a riserva che due volte ritornai in San Ginesio per pochi giorni» [232]
. Se gli riuscì di stare lontano dalla legge, almeno da sospettato, lo stesso non valse per il fratello. Per questo dovette aiutarlo, forte della veste da religioso, forse, o dell’aura di miracolato.
Note
[196] AAV, Cause dei Santi, Processus 1896, f. 80v.
[197] AAV, Cause dei Santi, Processus 1898, f. 58v.
[198] Ibidem.
[199] AAV, Cause dei Santi, Processus 1896, f. 77r.
[200] Ivi, f. 77v.
[201] Ivi, f. 80v.
[202] Ibidem.
[203] La pretesa filosofia de’ moderni increduli..., In Roma, Presso Carlo Barbiellini, 1767, p. VIII. Cfr. anche Gazzetta. Notizie del mondo per l’anno 1769, p. 553: «il P. Lazzaro Mongiardini Lettore di sacra Teologia nel Collegio de’ santi Vincenzo, e Anastasio a Trevi, della prefata religione (Chierici Regolari Minori)».
[204] P. Delpiano, Liberi di scrivere. La battaglia per la stampa nell’età dei Lumi, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 169-170. L’autrice definisce l’opera uno «straordinario caso anche di appropriazione di un testo altrui, pur profondamente rielaborato [...]. Mamachi divise il testo originale in quarantuno lettere indirizzate a un presunto amico e divulgò così gli errori dei philosophes attingendo all’istruzione del vescovo e servendosi della forma epistolare funzionale a facilitare la comprensione dei concetti».
[205] Ibidem.
[206] P. Delpiano, Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 13 e 17.
[207] P. Gobetti, Risorgimento senza eroi e altri scritti storici, Torino, Einaudi, 1976, pp. 13-64.
[208] AAV, Cause dei Santi, Processus 1896, ff. 80v-81r.
[209] Ivi, f. 81r.
[210] Ibidem.
[211] Ibidem.
[212] Ibidem.
[213] Ibidem.
[214] Ibidem e AAV, Cause dei Santi, Processus 1898, ff. 58v-59r.
[215] AAV, Cause dei Santi, Processus 1896, f. 81r.
[216] Ivi, f. 81v. F. Mirogli, Istruzioni teorico-pratiche criminali..., In Roma, Nella Stamperia di Generoso Salomoni, 1764, pp. 204 e 226.
[217] AAV, Cause dei Santi, Processus 1896, f. 81r.
[218] Ibidem.
[219] Ivi, f. 90r.
[220] Ibidem.
[221] AAV, Cause dei Santi, Processus 1898, f. 52v.
[222] Ibidem. Cfr. inoltre, Notizie per l’anno 1762, In Roma, Nella Stamperia del Chracas presso S. Marco al Corso, 1762, p. 60.
[223] AAV, Cause dei Santi, Processus 1898, f. 6r.
[224] Ivi, f. 53r.
[225] Ibidem.
[226] Ivi, f. 55r.
[227] Ivi, f. 59v.
[228] Ivi, f. 60r.
[229] Ibidem.
[230] Ibidem.
[231] S. Servanzi Collio, Santa Maria delle Macchie presso il Castello di Gagliole diocesi di Camerino. Racconto, Macerata, Dalla Tipografia di Alessandro Mancini, 1862, pp. 4-5; AAV, Cause dei Santi, Processus 1898, f. 60r.
[232] AAV, Cause dei Santi, Processus 1898, f. 60r.