Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/p3
Il conflitto è la premessa di fatto necessaria.
Naturalmente, le parti, consce ciascuna del proprio ruolo e dei limiti ad esso connessi,
possono «collaborare» a porre in essere condizioni atte a modificare i contenuti concreti
del conflitto, a facilitarne la soluzione via via che si produce. Tale «collaborazione
conflittuale» può avvalersi di una varietà di strumenti: la consultazione mista della
Bassetti è stato uno dei tanti esistenti o escogitabili. Essa va pertanto valutata in questo
contesto concettuale.
¶{p. 17}
Le tensioni nell’esercizio dell’autorità,
l’alienazione come estraneazione dal processo di produzione non si rimuovono per questa
via, né sono stati rimossi dalla consultazione mista alla Bassetti. Ma neppure si è prodotta
‒ e questo è un punto di particolare rilievo ‒ una confusione di ruoli quale si è verificata
in altri casi, ad esempio nella cogestione tedesca. Bassetti ha ribadito più volte il
principio che l’impresa è una organizzazione gerarchica, non democratica, e imperniata su
una posizione di autorità dell’imprenditore
[7]
; autorità che, per giunta, deve trasmettersi intatta ai capi. È un atteggiamento
realistico e, in quanto espresso senza mezzi termini, onesto; in esso l’anima
dell’imprenditore prevale sulle ideologie personali di cui questo è portatore:
«partecipazione» e «associazione» vengono elise per il principio di non contraddizione; esse
non possono farsi se non a spese della autorità, e, come abbiamo
visto, della stessa efficienza, che per Bassetti imprenditore è poi il valore che
giustifica l’autorità medesima nell’azienda.
Date queste constatazioni, allora, è anche evidente
che l’ovvia domanda: a che è servita la consultazione, si sposta su un diverso piano, anzi,
su diversi piani di valutazione.
6. Un primo termine di riferimento è dato
dall’organizzazione dell’impresa.
I «suggerimenti» del personale, filtrati attraverso
gli organi di consultazione (e perciò formulati, discussi e apprezzati collegialmente) sono
stati abbastanza proficui, anche se non eccezionali, ed hanno contribuito al fine essenziale
di migliorare, con reciproco vantaggio, i metodi di lavoro. Non a caso, la consultazione ha
agito da stimolo in questo senso: l’apporto inventivo dei lavoratori non può svolgersi
efficacemente attraverso il procedimento paternalistico della «cassetta delle idee» con
premi ai più bravi, ma deve essere frutto di discussioni, valutazioni collegiali svolte su
un piano di parità.
Questo comunque è un aspetto di rilievo
alquanto¶{p. 18} secondario. Le innovazioni tecnico-organizzative su cui
possono influire i dipendenti ‒ posto che vi siano i margini per tali cambiamenti, in
genere di entità minore, che non tutte le tecnologie consentono ‒ sono infatti di due tipi:
quelle indolori, e quelle che comportano riflessi negativi nelle relazioni interne
(modifiche di mansioni, di organico ecc.). Per le prime, la consultazione può essere vista
in se stessa, come canale di suggerimenti. Per le ultime, l’unico, sano rapporto è quello
negoziale; né può attendersi, logicamente, un’iniziativa dal basso, cioè dai lavoratori che
corrono il rischio delle conseguenze negative. È anche evidente, peraltro, che il problema
più grave nell’impresa d’oggi è dato dalle seconde, non dalle prime. E, rispetto ad esse,
nell’esperienza in esame, risulta ben dimostrato come la consultazione mista abbia senza
dubbio contribuito a preparare la contrattazione su questi aspetti: è
un profilo sul quale ritorneremo nel paragrafo seguente, perché esso implica di esser visto
nel quadro d’insieme dei rapporti sindacali.
Una seria incidenza nei rapporti gerarchici non pare
che la consultazione mista l’abbia avuta. Il problema dei capi si pone anzi in forma tale
che vi si rivelano molti degli equivoci di partenza. La consultazione, attuata attraverso
organi formali, implica un rapporto paritetico, una rappresentanza, un dibattito
tra portavoci, in posizione di autonomia rispetto alla gerarchia
aziendale. Ebbene, tale prassi (vedasi le vicende degli annodatori) appare pericolosa per
l’autorità dei capi, e, quando il pericolo si profila, la struttura direttiva reagisce
compatta. Resta invece il fatto, innegabile, che la consultazione ha introdotto una prassi
di discussione collegiale non solo con i dipendenti, ma anche tra i
dirigenti: e questo effetto laterale corrisponde ad una direttiva nota alle
moderne teorie del management ma che le «tecnostrutture» italiane, come
è noto, hanno fatta propria in misura ancora insoddisfacente. Donde, la positività
dell’intervento di un fattore catalizzatore, e questo ruolo ha qui ricoperto la
consultazione mista. Facendo una regola del dibattito con i rappresentanti dei dipendenti,
questa costringeva l’intera¶{p. 19} dirigenza a sortire dalla propria
amministrazione settoriale, per affrontare l’interlocutore con un sufficiente grado di
integrazione reciproca.
Ma la politica di consultazione va più avanti. Essa
tende a delinearsi come una pratica direzionale, da attuarsi anche al di fuori della
consultazione formale, in concomitanza con una politica di decentramento delle
responsabilità operative, che ne è il logico presupposto. La realizzazione di questi criteri
direzionali si spinge abbastanza avanti, fino a provocare l’irrigidimento dei capi, di cui
si è fatto cenno. Essa viene codificata infine nella istituzione di una funzione, integrata
nella direzione, che doveva rappresentare, a livello di organizzazione direttiva, la
politica della consultazione, garantita dall’esistenza di organismi
paritetici ma ormai acquisita come metodo di governo. Nasceva così,
detto per inciso, quella segreteria della consultazione mista, «organizzativamente
inquadrata nell’àmbito della Direzione Generale», ma responsabile verso le due parti, che in
realtà ‒ costituita da attivi sindacalisti ‒ avrebbe esplicato piuttosto compiti di ponte
tra queste due.
A conti fatti, in un’impresa dinamica, e soggetta a
spinte innovative discendenti dalla forte personalità dell’imprenditore, la consultazione
mista ha avuto una certa funzione di stimolo ai processi di sviluppo. Potremmo dire che, con
essa, la parte più attiva della direzione ha chiesto ed ottenuto una mano dai lavoratori
organizzati per superare le resistenze tecno-burocratiche. Ma premesso che neanche a tal
proposito si può parlare di fini comuni, perché in nessun luogo sta scritto che il sindacato
debba essere il sostegno della tecnocrazia d’avanguardia o il portatore del valore
dell’efficienza, vediamo piuttosto in che modo la consultazione
mista stessa ha operato nei confronti di quest’ultimo, e se abbia o meno attivizzato
processi di innovazione in qualche modo paralleli a quelli indotti nella
direzione.
7. La consultazione alla Bassetti discende da
un’iniziativa dell’imprenditore, che compie l’offerta alla
contro¶{p. 20}parte, plasma il contenuto delle prime intese. Al di là dei
simboli politici di cui la consultazione stessa si ammanta, essa vien fuori eminentemente
da un’esigenza imprenditoriale, e da una volontà tesa all’innovazione in funzione
dell’efficienza.
L’atteggiamento del sindacato, sia pur con minore
consapevolezza, segue una linea parallela, almeno per CISL e UIL: una coltre di professioni
di principio comuni con quelle dell’imprenditore, una reale esigenza di vedersi riconosciuto
un ruolo nell’azienda. La contestuale istituzione del premio di produzione, che postula un
flusso di informazioni e una periodica discussione, è un primo risultato concreto.
Soprattutto ideologica appare invece l’opposizione della CGIL. Nel 1958, questa
confederazione non aveva neppure ancora assimilato ai livelli periferici le linee di
contrattazione aziendale emerse dal congresso del 1956, né, nel settore che ci riguarda, la
FIOT rivelava la duttilità tattica di cui avrebbe dato eccellente prova la FIOM pressappoco
a partire dallo stesso periodo. Ne derivò pertanto un’opposizione ideologica che non si mutò
in isolamento solo perché, in parallelo, la direzione aziendale continuò a trattare con la
commissione interna, rappresentativa di tutti e tre i sindacati, ed anzi concesse alla
stessa, nel 1959, un’area più vasta di funzioni, riconoscendole un ruolo contrattuale vero e
proprio. E d’altronde se l’opposizione della FILTEA-CGIL fu secca e netta in termini di
principio, molto meno lo fu nei fatti, manifestandosi più in insofferenza che in lotta e
talora infine, soprattutto negli ultimi anni, in atteggiamenti di benevola attesa.
La linea di condotta della direzione, di fronte allo
schieramento sindacale così diviso, non fu molto coerente, in quanto vi si riflettevano
fratture in atto nella stessa. Spingersi per la via nuova implicava, se non discriminare,
quanto meno privilegiare i due sindacati minori. Mantenere un atteggiamento di equidistanza
implicava assumere, in sede di scelte direzionali, posizioni obiettivamente conservatrici
respingendo il «nuovo» della consultazione: e non era la prima volta, d’altronde, in
cui¶{p. 21} l’intransigenza ideologica e l’atteggiamento di conservazione
confluivano nel nullismo. Il caso più tipico si sarebbe poi prodotto nel 1966, quando la
consultazione porterà il suo risultato più eminente, e cioè le possibilità di discutere
l’intero piano di organizzazione aziendale. Ed anche in questo caso, frazioni della
direzione poterono far apparire come atteggiamento di sinistra, appoggio alla CGIL, quello
che era poi la volontà di non consentire una tale
discussione.
Lo svolgersi dell’esperienza indica comunque che
l’impegno dei sindacati rappresentati è stato secondario, e che da essi è mancata una
consistente spinta atta a trarre di più dall’esperimento stesso; tanto
che si ha l’impressione che talvolta la struttura si sia retta più per volontà
dell’imprenditore che per l’impegno della controparte, attenta ‒ e non sempre ‒ ai pochi
vantaggi immediati, non chiaramente consapevole delle prospettive, la cui positività sarebbe
stata d’altronde una funzione del grado di impegno dei sindacati stessi.
Ad onta di ciò, un aspetto positivo consiste nel fatto
che quando i sindacati, o la stessa commissione interna sotto la spinta di questi (il
conflitto tra commissioni interne e sindacati è nel paese un dato di fatto, e non da ieri,
ma non deve neppur esso venir sopravvalutato in un’antitesi concettuale: la commissione
interna può essere, in date circostanze, il portavoce o la porta d’ingresso dei sindacati),
premettero nel senso della negoziazione aziendale, trovarono altresì un agile punto di
raccordo nella già esistente struttura di consultazione. La segreteria della consultazione
mista ‒ istituto ibrido, discutibile, e non imitabile, ma non negativo nella particolare
funzione svolta da esso nella Bassetti ‒ ha consapevolmente operato come testa di ponte, e,
per di più, come testa di ponte unitaria: la politica da essa svolta,
ad onta del fatto che la CGIL non fosse tra i sindacati che le avevano conferito la
fiducia, è apparsa allineata con le posizioni unitarie emerse negli ultimi due o tre anni, e
vivacissime, com’è noto, in taluni settori della CISL, come pure nelle ACLI.
Il proposito espresso da Bassetti a più riprese, che
la
¶{p. 22} consultazione dovesse essere una occasione per la crescita del
movimento sindacale ha trovato perciò un moderato riscontro. «Moderato» perché non tutte le
possibilità vennero sfruttate, e ciò, in buona misura, per l’astensionismo della CGIL, che,
giudicato con gli occhi d’oggi, appare in fondo avulso da una realistica impostazione
strategica e piuttosto dominato da un astratto ideologismo (il «no» di principio alla
«collaborazione», la politica delle mani nette cui non si affianca la indicazione di una
alternativa di strategia aggressiva, idonea a parimenti muovere le acque nello
stagno).
Note
[7] V. Bendix, Work and Authority in Industry, New York and London, 1956, pp. 1, 13.