Umberto Romagnoli
Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/p3
Il conflitto è la premessa di fatto necessaria. Naturalmente, le parti, consce ciascuna del proprio ruolo e dei limiti ad esso connessi, possono «collaborare» a porre in essere condizioni atte a modificare i contenuti concreti del conflitto, a facilitarne la soluzione via via che si produce. Tale «collaborazione conflittuale» può avvalersi di una varietà di strumenti: la consultazione mista della Bassetti è stato uno dei tanti esistenti o escogitabili. Essa va pertanto valutata in questo contesto concettuale.
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Le tensioni nell’esercizio dell’autorità, l’alienazione come estraneazione dal processo di produzione non si ri­muovono per questa via, né sono stati rimossi dalla consultazione mista alla Bassetti. Ma neppure si è prodotta ‒ e questo è un punto di particolare rilievo ‒ una confusione di ruoli quale si è verificata in altri casi, ad esempio nella cogestione tedesca. Bassetti ha ribadito più volte il principio che l’impresa è una organizzazione gerarchica, non democratica, e imperniata su una posizione di autorità dell’imprenditore [7]
; autorità che, per giunta, deve trasmettersi intatta ai capi. È un atteggiamento realistico e, in quanto espresso senza mezzi termini, onesto; in esso l’anima dell’imprenditore prevale sulle ideologie personali di cui questo è portatore: «partecipazione» e «associazione» vengono elise per il principio di non contraddizione; esse non possono farsi se non a spese della autorità, e, come abbiamo visto, della stessa efficienza, che per Bassetti imprenditore è poi il valore che giusti­fica l’autorità medesima nell’azienda.
Date queste constatazioni, allora, è anche evidente che l’ovvia domanda: a che è servita la consultazione, si sposta su un diverso piano, anzi, su diversi piani di valutazione.
6. Un primo termine di riferimento è dato dall’organizzazione dell’impresa.
I «suggerimenti» del personale, filtrati attraverso gli organi di consultazione (e perciò formulati, discussi e apprezzati collegialmente) sono stati abbastanza proficui, anche se non eccezionali, ed hanno contribuito al fine essenziale di migliorare, con reciproco vantaggio, i metodi di lavoro. Non a caso, la consultazione ha agito da stimolo in questo senso: l’apporto inventivo dei lavoratori non può svolgersi efficacemente attraverso il proce­dimento paternalistico della «cassetta delle idee» con premi ai più bravi, ma deve essere frutto di discussioni, valutazioni collegiali svolte su un piano di parità.
Questo comunque è un aspetto di rilievo alquanto{p. 18} secondario. Le innovazioni tecnico-organizzative su cui pos­sono influire i dipendenti ‒ posto che vi siano i margini per tali cambiamenti, in genere di entità minore, che non tutte le tecnologie consentono ‒ sono infatti di due tipi: quelle indolori, e quelle che comportano riflessi negativi nelle relazioni interne (modifiche di mansioni, di organico ecc.). Per le prime, la consultazione può essere vista in se stessa, come canale di suggerimenti. Per le ultime, l’unico, sano rapporto è quello negoziale; né può attendersi, logicamente, un’iniziativa dal basso, cioè dai lavoratori che corrono il rischio delle conseguenze negative. È anche evidente, peraltro, che il problema più grave nell’impresa d’oggi è dato dalle seconde, non dalle prime. E, rispetto ad esse, nell’esperienza in esame, risulta ben dimostrato come la consultazione mista abbia senza dubbio contribuito a preparare la contrattazione su questi aspetti: è un profilo sul quale ritorneremo nel paragrafo seguente, perché esso implica di esser visto nel quadro d’insieme dei rapporti sindacali.
Una seria incidenza nei rapporti gerarchici non pare che la consultazione mista l’abbia avuta. Il problema dei capi si pone anzi in forma tale che vi si rivelano molti degli equivoci di partenza. La consultazione, attuata attraverso organi formali, implica un rapporto paritetico, una rappresentanza, un dibattito tra portavoci, in posizione di autonomia rispetto alla gerarchia aziendale. Ebbene, tale prassi (vedasi le vicende degli annodatori) appare pericolosa per l’autorità dei capi, e, quando il pericolo si profila, la struttura direttiva reagisce compatta. Resta invece il fatto, innegabile, che la consultazione ha introdotto una prassi di discussione collegiale non solo con i dipendenti, ma anche tra i dirigenti: e questo effetto laterale corrisponde ad una direttiva nota alle moderne teorie del management ma che le «tecnostrutture» italiane, come è noto, hanno fatta propria in misura ancora insoddisfacente. Donde, la positività dell’intervento di un fattore catalizzatore, e questo ruolo ha qui ricoperto la consultazione mista. Facendo una regola del dibattito con i rappresentanti dei dipendenti, questa costringeva l’intera{p. 19} dirigenza a sortire dalla propria amministrazione settoriale, per affrontare l’interlocutore con un sufficiente grado di integrazione reciproca.
Ma la politica di consultazione va più avanti. Essa tende a delinearsi come una pratica direzionale, da attuarsi anche al di fuori della consultazione formale, in concomitanza con una politica di decentramento delle responsabilità operative, che ne è il logico presupposto. La realizzazione di questi criteri direzionali si spinge abbastanza avanti, fino a provocare l’irrigidimento dei capi, di cui si è fatto cenno. Essa viene codificata infine nella istituzione di una funzione, integrata nella direzione, che doveva rappresentare, a livello di organizzazione direttiva, la politica della consultazione, garantita dall’esistenza di organismi paritetici ma ormai acquisita come metodo di governo. Nasceva così, detto per inciso, quella segreteria della consultazione mista, «organizzativamente inquadrata nell’àmbito della Direzione Generale», ma responsabile verso le due parti, che in realtà ‒ costituita da attivi sindacalisti ‒ avrebbe esplicato piuttosto compiti di ponte tra queste due.
A conti fatti, in un’impresa dinamica, e soggetta a spinte innovative discendenti dalla forte personalità dell’imprenditore, la consultazione mista ha avuto una certa funzione di stimolo ai processi di sviluppo. Potremmo dire che, con essa, la parte più attiva della direzione ha chiesto ed ottenuto una mano dai lavoratori organizzati per superare le resistenze tecno-burocratiche. Ma premesso che neanche a tal proposito si può parlare di fini comuni, perché in nessun luogo sta scritto che il sindacato debba essere il sostegno della tecnocrazia d’avanguardia o il portatore del valore dell’efficienza, vediamo piuttosto in che modo la consultazione mista stessa ha operato nei confronti di quest’ultimo, e se abbia o meno attivizzato processi di innovazione in qualche modo paralleli a quelli indotti nella direzione.
7. La consultazione alla Bassetti discende da un’ini­ziativa dell’imprenditore, che compie l’offerta alla contro{p. 20}parte, plasma il contenuto delle prime intese. Al di là dei simboli politici di cui la consultazione stessa si am­manta, essa vien fuori eminentemente da un’esigenza im­prenditoriale, e da una volontà tesa all’innovazione in funzione dell’efficienza.
L’atteggiamento del sindacato, sia pur con minore consapevolezza, segue una linea parallela, almeno per CISL e UIL: una coltre di professioni di principio comuni con quelle dell’imprenditore, una reale esigenza di vedersi riconosciuto un ruolo nell’azienda. La contestuale istituzione del premio di produzione, che postula un flusso di informazioni e una periodica discussione, è un primo risultato concreto. Soprattutto ideologica appare invece l’opposizione della CGIL. Nel 1958, questa confederazione non aveva neppure ancora assimilato ai livelli periferici le linee di contrattazione aziendale emerse dal congresso del 1956, né, nel settore che ci riguarda, la FIOT rivelava la duttilità tattica di cui avrebbe dato eccellente prova la FIOM pressappoco a partire dallo stesso periodo. Ne derivò pertanto un’opposizione ideologica che non si mutò in isolamento solo perché, in parallelo, la direzione aziendale continuò a trattare con la commissione interna, rappresentativa di tutti e tre i sindacati, ed anzi concesse alla stessa, nel 1959, un’area più vasta di funzioni, riconoscendole un ruolo contrattuale vero e proprio. E d’altronde se l’opposizione della FILTEA-CGIL fu secca e netta in termini di principio, molto meno lo fu nei fatti, manifestandosi più in insofferenza che in lotta e talora infine, soprattutto negli ultimi anni, in atteggiamenti di benevola attesa.
La linea di condotta della direzione, di fronte allo schieramento sindacale così diviso, non fu molto coerente, in quanto vi si riflettevano fratture in atto nella stessa. Spingersi per la via nuova implicava, se non discriminare, quanto meno privilegiare i due sindacati minori. Mantenere un atteggiamento di equidistanza implicava assumere, in sede di scelte direzionali, posizioni obietti­vamente conservatrici respingendo il «nuovo» della consultazione: e non era la prima volta, d’altronde, in cui{p. 21} l’intransigenza ideologica e l’atteggiamento di conserva­zione confluivano nel nullismo. Il caso più tipico si sa­rebbe poi prodotto nel 1966, quando la consultazione porterà il suo risultato più eminente, e cioè le possibilità di discutere l’intero piano di organizzazione aziendale. Ed anche in questo caso, frazioni della direzione poterono far apparire come atteggiamento di sinistra, appoggio alla CGIL, quello che era poi la volontà di non consentire una tale discussione.
Lo svolgersi dell’esperienza indica comunque che l’impegno dei sindacati rappresentati è stato secondario, e che da essi è mancata una consistente spinta atta a trarre di più dall’esperimento stesso; tanto che si ha l’impressione che talvolta la struttura si sia retta più per volontà dell’imprenditore che per l’impegno della controparte, attenta ‒ e non sempre ‒ ai pochi vantaggi immediati, non chiaramente consapevole delle prospettive, la cui positività sarebbe stata d’altronde una funzione del grado di impegno dei sindacati stessi.
Ad onta di ciò, un aspetto positivo consiste nel fatto che quando i sindacati, o la stessa commissione interna sotto la spinta di questi (il conflitto tra commissioni in­terne e sindacati è nel paese un dato di fatto, e non da ieri, ma non deve neppur esso venir sopravvalutato in un’antitesi concettuale: la commissione interna può essere, in date circostanze, il portavoce o la porta d’ingresso dei sindacati), premettero nel senso della negoziazione azien­dale, trovarono altresì un agile punto di raccordo nella già esistente struttura di consultazione. La segreteria della consultazione mista ‒ istituto ibrido, discutibile, e non imitabile, ma non negativo nella particolare funzione svolta da esso nella Bassetti ‒ ha consapevolmente operato come testa di ponte, e, per di più, come testa di ponte unitaria: la politica da essa svolta, ad onta del fatto che la CGIL non fosse tra i sindacati che le avevano confe­rito la fiducia, è apparsa allineata con le posizioni unitarie emerse negli ultimi due o tre anni, e vivacissime, com’è noto, in taluni settori della CISL, come pure nelle ACLI.
Il proposito espresso da Bassetti a più riprese, che la
{p. 22} consultazione dovesse essere una occasione per la crescita del movimento sindacale ha trovato perciò un moderato riscontro. «Moderato» perché non tutte le possibilità vennero sfruttate, e ciò, in buona misura, per l’asten­sionismo della CGIL, che, giudicato con gli occhi d’oggi, appare in fondo avulso da una realistica impostazione strategica e piuttosto dominato da un astratto ideologismo (il «no» di principio alla «collaborazione», la politica delle mani nette cui non si affianca la indicazione di una alternativa di strategia aggressiva, idonea a parimenti muo­vere le acque nello stagno).
Note
[7] V. Bendix, Work and Authority in Industry, New York and London, 1956, pp. 1, 13.