Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/p3
Prefazione
Nella prefazione al primo volume della Teoria generale delle obbligazioni (1953) Emilio Betti mi riproverò amichevolmente la sudditanza al metodo «di un’arida analisi formale, astrattamente concettualistica, quale quella proposta dall’indirizzo statalistico e antiteleologico kelseniano». Ma, aggiunse, «dai giovani è dato sempre sperare che una matura, approfondita esperienza del fenomeno giuridico insegni loro a correggere vedute unilaterali». Mi sono ricordato di questo lontano episodio della mia vita di studioso quando gli amici de «Il Mulino» mi hanno proposto con affettuosa insistenza di raccogliere in volume una scelta dei miei saggi di diritto dell’economia e del lavoro, preceduta dagli ultimi studi metodologici. Quale che ne sia il merito intrinseco, gli scritti qui ripubblicati (i meno recenti con alcune modificazioni formali per esigenze di omogeneità di stile, e anche con qualche taglio non essenziale per esigenze di economia di spazio) testimoniano che il voto del Maestro non è rimasto inascoltato. Ma non è mia intenzione sottolineare una modesta vicenda personale. Del resto Betti si rivolgeva a tutti i giovani della mia generazione e li ammoniva a prendere coscienza dell’unilateralità del metodo dogmatico tramandato dalla scuola pandettistica, della quale la scuola kelseniana è la continuazione sul piano della teoria generale del diritto.
Gli indirizzi antidogmatici, che in Italia si sono diffusi a partire dagli anni Sessanta, hanno svelato l’inadeguatezza, rispetto ai bisogni della nuova società industriale e pluralistica, delle sintesi valutative cristallizzate nelle strutture concettuali del sistema classico del diritto privato. Quando «il pensiero è dominato da concetti scaduti, lo spirito della scienza è morto, il pensiero degenera in gioco ¶{p. 6}di pensiero e si perde in sottigliezze infeconde»
[1]
. Alla nuova dottrina si deve pure riconoscere il merito di non essersi attardata sulle posizioni della «giurisprudenza degli interessi» e della sua «erede nobilitata», la «giurisprudenza dei valori», che attribuisce alla scienza giuridica il compito di sviluppare e portare a compimento le valutazioni della legge. Quando passa dall’attività di interpretazione della legge, in vista dell’applicazione ai casi previsti, all’attività di integrazione delle lacune, cioè di ricerca della regola da applicare ai casi non previsti, questo indirizzo metodologico cade nel medesimo errore di «inversione di metodo» che i suoi precursori del primo Novecento rinfacciavano alla «giurisprudenza dei concetti» paragonandolo al peccato contro lo Spirito Santo. Dai concetti astratti di valore, ricavati per generalizzazioni successive dalle scelte del legislatore positivo, non si può dedurre più di quanto è già in essi contenuto
[2]
. La loro funzione è meramente rappresentativa e esplicativa degli scopi della legge; sono idee riassuntive di regole già poste, non servono per scoprire nuove regole di decisione.
I «valori fondamentali» della Costituzione hanno un modo di essere diverso da quello del diritto positivo: non valgono in quanto «posti», ma per se stessi, indipendentemente dalla loro concretizzazione in programmi normativi di azione. Non si può dire, perché la contraddizione non lo consente, che «il legislatore statale positivizza una norma soprapositiva»
[3]
. Ciò che viene «positivizzato», con un atto di volontà dello stato espresso nella legge fondamentale, è il vincolo del diritto positivo a valori metalegislativi, il rinvio ad essi come a misure di «diritto giusto», a principi regolativi dell’attività di formazione delle leggi e dell’attività giurisprudenziale di svi¶{p. 7}luppo del diritto positivo per la soluzione di nuovi problemi di decisione.
Ma la distruzione della credenza nella stabilità dei concetti giuridici, determinata dalla penetrazione dei valori costituzionali nel diritto privato, mentre ha risvegliato lo spirito di ricerca, non ha portato a recuperare lo spirito originario del «sistema», aperto alla riflessione sulle cose nuove senza perdere la memoria del passato: semplicemente ha portato a un impoverimento del pensiero sistematico. L’esigenza di integrazione del pensiero problematico nel pensiero sistematico è il tema dominante dei saggi raccolti nella prima parte del volume. Il pensiero giuridico che non sappia riprodurre le proprie sintesi valutative in un equilibrato sistema di concetti rigorosamente definiti, non attinge la comprensibilità propria di una visione teoretica unitaria e lascia i risultati della ricerca in una indeterminatezza concettuale simile al modo dell’oracolo, il quale «non dice e non nasconde, ma accenna».
Le logiche materiali, o teorie dell’argomentazione, proposte negli ultimi trent’anni come metodi del pensare per problemi, e che sono altrettante varianti di quella sorta di logica allargata che è la logica del verosimile, ci insegnano a trovare i punti di vista e gli argomenti idonei a svolgere un ragionamento valutativo e a difenderlo nel confronto dialettico con altre argomentazioni, ma non ci procurano un criterio intersoggettivo di controllo di tali ragionamenti e dei giudizi di valore cui mettono capo. È questo il limite della topica aristotelica, più volte sottolineato da Leibniz
[4]
. L’argomentare mediante ragioni, essendo legato ai dati individuali del caso problematico, non è in grado di assicurare un giudizio di preferibilità con l’evidenza che distingue il conoscere dal semplice opinare e mette termine alle differenze di opinione sul partito da prendere: un termine non definitivo, perché la conoscenza del verosimile ci offre soltanto verità interi¶{p. 8}nali, sempre soggette a revisione, ma che per intanto tronca la discussione. Il criterio di controllo razionale è dato in un contesto diverso dall’invenzione topica, un contesto in cui operano le tecniche deduttive della dimostrazione.
Questo contesto non può essere scelto arbitrariamente secondo il tipo di razionalità ritenuto più congruo, per esempio la razionalità dell’economia del benessere, fondata esclusivamente su valori utilitaristici misurabili secondo grandezze quantitative, rispetto ai quali le scelte risultanti dall’analisi costi-benefici sono garantite con l’evidenza della dimostrazione matematica. Il contesto della dimostrazione non può essere se non il sistema dogmatico del diritto positivo, che deve trovare la sua fondazione ultima in valori etici. Una valutazione, ossia un’ipotesi di decisione, argomentata con le tecniche del pensiero problematico acquista il grado di plausibilità che qualifica le «evidenze preferenziali» solo se può essere costruita dogmaticamente in modo da renderla comprensibile come deduzione da un concetto o da un principio generale e dimostrarne così la coerenza con l’equità complessiva dell’ordinamento giuridico. A chi asserisce che le regole logiche non hanno alcuna funzione nelle questioni probabili Leibniz risponde che «la logica delle probabilità ha conseguenze differenti dalla logica delle verità necessarie; ma la probabilità stessa di queste conseguenze deve essere dimostrata mediante le conseguenze della logica delle verità necessarie»
[5]
.
Il formalismo della giurisprudenza dei concetti e la sua «non raziocinante presunzione di verità fatte» non si superano con l’anticoncettualismo, ma acquistando una maggiore consapevolezza dei problemi e una più raffinata capacità di analisi delle loro connessioni di valore, e poi tornando, come dice Hegel
[6]
, a «prendere su di sé la fatica del concetto».
Note
[1] N. Hartmann, Das Problem des geistigen Seins, Berlin, 19623, p. 502; trad. it., Firenze, 1971, p. 656.
[2] Pawloski, Methodenlebre für Juristen, Heidelberg-Karlsruhe, 1981, Rz. 134.
[3] Geiger, Die Wandlung der Grundrechte, in Gedanke und Gestalt des demokratischen Rechtsstaates, a cura di Imboden, Wien, 1965, p. 14.
[4] Cfr. i passi citati più avanti, p. 85, note 23 e 24.
[5] Nouveaux Essais sur l’entendement humain, IV, 17, § 6, in Philosophische Schriften, a cura di Gerhardt, vol. V, Berlin, 1882, p. 466.
[6] Fenomenologia dello spirito, vol. I, Firenze, 1973, p. 48.