Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c4
Epilogo
Abstract
La conclusione di questa ricerca tenta di dare una risposta all’interrogativo che attraversa l’intera opera, ovvero se l’immaginazione sia in grado di rimarginare una ferita. Se per medici e teologi del Settecento la negatività della risposta appariva ovvia, essi tuttavia non negarono mai alcuni poteri che essa poteva possedere sul corpo dell’immaginante. Cionondimeno, fino alla sua “riabilitazione” in ambito artistico avvenuta nei secoli successivi, all’immaginazione fu imputata la grave colpa di illudere, contrapposta e sconfitta dall’assennatezza del giudizio.
Può l’immaginazione rimarginare una
piaga? È questo l’interrogativo di fondo che, come un fiume carsico, percorre la presente
ricerca. Finalmente può riaffiorare e iniziare a trovare risposta. Se non cicatrizzare una
ferita, in passato si ipotizzò che l’immaginazione potesse ferire. Tra i casi emblematici vi
erano le stigmate di Francesco d’Assisi: «l’identificazione di un essere umano a Cristo
crocifisso per l’impressione di cinque piaghe nella carne»
[1]
. Impostura o potere della fantasia? La Chiesa si trasse fuori
dall’impasse invocando una terza via: il miracolo. Francesco fu
canonizzato nel 1228. L’episodio ebbe larga eco nei secoli a venire. In uno dei suoi
Essais (lib. 1, cap. 21), Montaigne accennerà al fronte
anti-miracolista; ad autori che «attribuirono alla forza dell’immaginazione le cicatrici del
re Dagoberto e di san Francesco», come l’autore del De occulta philosophia
(1531), Cornelio Agrippa von Nettesheim (I, 64)
[2]
. Similmente, nello stesso periodo, ma questa volta in Italia, un aristotelico di
sinistra – applicando la felice categoria di Ernst Bloch – Pietro Pomponazzi, tentò di
spiegare il miracolo occorso nei cieli dell’Aquila (1520), e dai più attribuito al patrono
della città, san Celestino, appellandosi all’immaginazione plastica dei fedeli
[3]
. Trascorsi oltre due secoli, si giunge al caso in esame: la guarigione del
giovane chierico, Carlo de Vivis; duecento e più anni ¶{p. 200}in cui la
scienza e la teologia, per menzionare solo due tra gli ambiti presi in esame, subirono
importanti rivolgimenti. Eppure, in quel 1752 – e oltre, negli anni a venire – la
vis imaginativa continuò a far parlare di sé.
Il sospetto che la guarigione di Carlo
non fosse piovuta dal cielo, ma fosse dipesa dalla sua stessa immaginazione, venne, oltre
che al chierico e al secondo infermiere, Carlo Porcelli, al promotore della fede, Benedetto
Veterani. Nelle animadversiones redatte per la beatificazione di
Francesco Caracciolo, trasformò il timido sospetto in un solido argomento: l’ammalato era
affetto da ulcera gastrica – e non da compromissioni polmonari –; in questo caso, la
vis imaginationis del languente avrebbe potuto rimarginare
l’abrasione. Una tesi quest’ultima che, come in passato, nel caso delle stigmate di san
Francesco, o dell’apparizione nei cieli di san Celestino, si rivelò purtuttavia debole.
Nonostante ciò, l’immaginazione transitiva e, in special modo, la teoria nella sua forma
settecentesca, si è dimostrata una lente favorevole per studiare la percezione che gli
uomini e le donne del XVIII secolo avevano della natura, della sovrannatura e del rapporto
tra i due domini dell’essere. Un rapporto, va da sé, di tipo storico; storicizzato, come
Laverda mette in guardia chi volesse sorprendere il problema al sorgere, nella tarda
antichità: «invano cercheremo la parola sovrannaturale nei testi di Agostino: questo perché
egli intendeva la relazione tra Dio e natura in modo differente rispetto a come verrà intesa
a partire dal tardo Medioevo, quando la parola sovrannaturale farà la sua comparsa nei testi
della teologia scolastica»
[4]
. Difatti, del tutto particolare, e a suo modo unica, è parsa la relazione tra
natura e sovrannatura nell’episodio campione; più in generale nel periodo e nell’area
geografica individuati. Ora, in conclusione, si proverà a tracciarne un profilo che appaia
quanto meno sfumato. A tal motivo, aiuterà riportarsi alla domanda fondamentale: può
l’immaginazione rimarginare una ferita?
Per un medico o un teologo del Settecento
la risposta suonava recisa: no! Al netto di ciò, essi non tolsero mai alla
¶{p. 201}facoltà, in tutto e per tutto, i poteri che fino a quel momento le
erano stati riconosciuti; al più li limitarono. Certo, come si è avuto modo di appurare, il
medico ordinario e le autorità apostoliche – il promotore della fede, gli avvocati
pro causa, il perito – presupponevano che l’immaginazione umana non
avrebbe potuto agire a distanza (actio in distans); non si era disposti
ad ammettere che essa potesse avere un impatto sui corpi esterni, che stazionavano oltre le
vene, le ossa, le arterie, ma soprattutto l’epidermide dell’immaginante; al punto da fare
precipitare un cammello in un calidarium – per usare il celebre motto
attribuito al filosofo persiano al-Ghazālī (1058-1111)
[5]
. Anzi, a metà secolo, persino la capacità che tradizionalmente si attribuiva
all’immaginazione materna – di imprimere macchie sul corpo del feto – iniziava a sbiadire:
fu falsificata dal medico naturalizzato inglese James Blondel, sebbene tanto Ludovico
Antonio Muratori, quanto Prospero Lambertini – e quindi chi come l’ordinario e il perito
dipendevano dagli scritti di questi ultimi – continuassero all’occorrenza a fare appello ad
essa.
Nondimeno, alla facoltà immaginativa fu
lasciata un’ultima possibilità: di agire, se non sulla realtà esterna, sul corpo stesso
dell’immaginante; ciò, non sine medio, ovvero non senza la
collaborazione di un mezzo più o meno corporeo; il più delle volte di residui di
epistemologie animistiche, come gli spiriti, che «si formavano della parte più pura e
sottile del sangue delle arterie»
[6]
. Muratori – da una cui costa della Filosofia morale è
tratta quest’ultima definizione – forniva un compendio del funzionamento della facoltà
immaginativa che, come constatato, sarà preso a modello da diverse intelligenze del periodo;
tra tutti, la griglia concettuale che egli predispose andò a innervare gli argomenti delle
autorità religiose nelle positiones super dubio, in cui si discuteva la
guarigione di de Vivis. Secondo un simile schema, il corpo umano è una macchina cordata, in
cui gli organi principali, il cervello e il cuore, quindi i sensi, sono tra loro collegati
¶{p. 202}dai nervi. Gli spiriti, che devono all’attività del cuore la loro
generazione, raggiungono i nervi e scorrono dai sensi al cervello, e dal cervello ai sensi,
consentendo all’individuo e di immaginare, e di muovere le membra (ambedue le funzioni, in
reazione a uno stimolo esterno o a un’immagine prodottasi internamente, in via
indipendente). Ne deriva che la sola fantasia «naturalmente è atta ad inviare con forza gli
spiriti animali per le vie, glandole e pori del corpo, da qualche ristagno d’umori e
ostruzione impediti, che superano ogni ostacolo, tornino a circolare i fluidi e ad
esercitare le lor funzioni i nervi, i muscoli e tendini dianzi impigriti, o affatto
abbandonati dal vivace e tanto necessario influsso de gli spiriti medesimi»
[7]
. Dove ancora una volta, si noti, la vis imaginativa si
sostanzia per accidens, ossia attraverso un medio, in coda a una
tradizione che, come si è avuto modo di ripercorrere, potrebbe farsi iniziare con Tommaso
d’Aquino.
Se nel caso di Carlo de Vivis le autorità
religiose e mediche ritennero che l’immaginazione non potesse essere tanto vigorosa da
cicatrizzare una piaga, ciò accadde perché – come rendeva noto de Iorio, uniformandosi alle
acquisizioni della medicina e alle prospettive della teologia del periodo – la ferita (nello
specifico, la lesione di un vaso sanguigno polmonare) impediva agli spiriti, preventivamente
eccitati dalla fantasia, di irrorare le membra, vivificandole e imprimendo in esse
variazioni. Non per questo, però, come notato, si riteneva che l’immaginazione non potesse
agire in altre circostanze: purché l’azione riguardasse il corpo dell’immaginante. Tra
tutti, si riporti alla mente, per l’ultima volta, il caso della gotta del piede da cui erano
affetti i cosiddetti «podagrosi». Celebre era il racconto di allettati che, avendo avvertito
una scossa sismica, erano stati sorpresi nell’atto di tirarsi su dal letto e fuggire sulle
loro stesse gambe. Ci si persuadeva, dunque, che il figurarsi una morte violenta potesse
favorire un rapido affrancamento dalla malattia. Quindi, come sostiene Elena Brambilla, e
ora pare confermato dal caso esaminato, la Chiesa ¶{p. 203}del XVIII secolo
aderì al dettato di una «medicina razionale» che, pur facendo propria la visione
meccanicistica di Cartesio e Gassendi, non rinunciava ad «anime, spiriti e pneumi». Una
medicina che tentava di conciliare antichi e moderni; che epurava le filosofie del passato
da un magismo non più sostenibile, poiché non più ragionevole (secondo un’idea di ragione
valida in quel momento) e, «al tempo stesso, spunta[va] le armi teoriche dei moderni per
darsi un facile smalto d’aggiornamento»
[8]
. Tra le autorità più citate nelle positiones, l’autrice
menzionava Stahl e Hoffmann. Due nomi che, alla luce dello studio di Francesco Paolo de
Ceglia, I fari di Halle, si è appreso, a malapena avrebbero potuto
trovarsi, se non nella stessa pagina, in uno stesso volume
[9]
. Tra i due, difatti, il primo aderiva a un animismo, se si vuole,
«neoplatonizzante», come azzardava Heinrich Philipp August Damerow, nei primi decenni dell’Ottocento
[10]
; il secondo, al contrario, aveva insegnato ai giovani universitari di Halle la
filosofia meccanicista di Cartesio. Alla luce della precedente dicotomia, sorprende
constatare l’assenza del primo nome nelle positiones per la
beatificazione di Francesco Caracciolo e, invece, trovarsi a inciampare, a più riprese, in
quello del rivale: Hoffmann. Una presenza che già Sodano aveva confermato nelle
animadversiones napoletane pubblicate a partire dalla fine degli
anni Cinquanta del Settecento; a tal proposito, lo studioso legittimamente deduceva: «è
indubbio che a determinare un simile mutamento fosse stato il clima che si era instaurato in
seno alla Chiesa col pontificato lambertiniano, con le sue tendenze ad accogliere alcuni
aspetti del razionalismo del secolo»
[11]
.
A proposito del rapporto tra natura e
sovrannatura, Sodano prosegue: «ricondurre la malattia a cause razionali,
¶{p. 204}consentiva, invece, una via esclusivamente naturale, fatta di
medici e di medicine e una via miracolosa, opera di Dio, unico creatore di quella realtà
naturale e, quindi, unico in grado di sovvertirla»
[12]
. Come il caso in esame ha mostrato, la guarigione di Carlo si faceva risalire a
due soli, possibili, ordini di cause: l’immaginazione e il miracolo; dove il primo era
sinonimo di ordine naturale, come esplicitava il medico di casa, Vincenzo de Iorio, in sede
processuale. A dispetto di una simile equazione, immaginazione-natura, l’azione
dell’immaginazione non era parificata a quella farmacologica: piuttosto, la si collocava un
gradino più in alto sull’immaginaria scala dell’essere, dove all’apice sedeva Dio. Così,
elevata, ma non abbastanza da oltrepassare il confine della natura, ne diveniva essa stessa
il discrimine; la linea di demarcazione tramite la quale era possibile definire e
riconoscere – via negationis – la portata e il darsi dell’intervento
miracoloso. Ne risultava un taglio netto; profondo: l’immaginazione umana spazzava via
l’intervento divino e, viceversa, l’intervento divino metteva alla porta l’azione della
fantasia umana. Tertium non datur!
Note
[1] A. Vauchez, Les stigmates de saint François et leurs détracteurs dans les derniers siècles du moyen âge, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 80, 2 (1968), pp. 595-625, in particolare p. 597.
[2] M. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Milano, Bompiani, 2012, p. 173.
[3] E. Bloch, Avicenna e la sinistra aristotelica, a cura di N. Alessandrini, Milano, Mimesis, 2018 (ed. or. Avicenna und die Aristotelische Linke, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1963).
[4] A. Laverda, La nascita del sovrannaturale, cit., p. 11.
[5] T. Griffero, Immagini attive, cit., pp. 36-44.
[6] L.A. Muratori, La filosofia morale esposta e proposta a i giovani, cit., p. 43.
[7] Ivi, p. 68.
[8] E. Brambilla, La medicina del Settecento. Dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in F. Della Peruta (a cura di), Annali della Storia d’Italia, vol. VII, Malattia e Medicina, Torino, Einaudi, 1984, pp. 46-54, in particolare pp. 26-28.
[9] F.P. de Ceglia, I fari di Halle, cit.
[10] H. Damerow, Die Elemente der nächsten Zukunft der Medicin, Berlin, G. Reimer, 1829, pp. 160r-v.
[11] G. Sodano, Il miracolo nel Mezzogiorno d’Italia, cit., p. 277.
[12] Ivi, p. 278.