Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c4

Epilogo

Abstract
La conclusione di questa ricerca tenta di dare una risposta all’interrogativo che attraversa l’intera opera, ovvero se l’immaginazione sia in grado di rimarginare una ferita. Se per medici e teologi del Settecento la negatività della risposta appariva ovvia, essi tuttavia non negarono mai alcuni poteri che essa poteva possedere sul corpo dell’immaginante. Cionondimeno, fino alla sua “riabilitazione” in ambito artistico avvenuta nei secoli successivi, all’immaginazione fu imputata la grave colpa di illudere, contrapposta e sconfitta dall’assennatezza del giudizio.
Può l’immaginazione rimarginare una piaga? È questo l’interrogativo di fondo che, come un fiume carsico, percorre la presente ricerca. Finalmente può riaffiorare e iniziare a trovare risposta. Se non cicatrizzare una ferita, in passato si ipotizzò che l’immaginazione potesse ferire. Tra i casi emblematici vi erano le stigmate di Francesco d’Assisi: «l’identificazione di un essere umano a Cristo crocifisso per l’impressione di cinque piaghe nella carne» [1]
. Impostura o potere della fantasia? La Chiesa si trasse fuori dall’impasse invocando una terza via: il miracolo. Francesco fu canonizzato nel 1228. L’episodio ebbe larga eco nei secoli a venire. In uno dei suoi Essais (lib. 1, cap. 21), Montaigne accennerà al fronte anti-miracolista; ad autori che «attribuirono alla forza dell’immaginazione le cicatrici del re Dagoberto e di san Francesco», come l’autore del De occulta philosophia (1531), Cornelio Agrippa von Nettesheim (I, 64) [2]
. Similmente, nello stesso periodo, ma questa volta in Italia, un aristotelico di sinistra – applicando la felice categoria di Ernst Bloch – Pietro Pomponazzi, tentò di spiegare il miracolo occorso nei cieli dell’Aquila (1520), e dai più attribuito al patrono della città, san Celestino, appellandosi all’immaginazione plastica dei fedeli [3]
. Trascorsi oltre due secoli, si giunge al caso in esame: la guarigione del giovane chierico, Carlo de Vivis; duecento e più anni {p. 200}in cui la scienza e la teologia, per menzionare solo due tra gli ambiti presi in esame, subirono importanti rivolgimenti. Eppure, in quel 1752 – e oltre, negli anni a venire – la vis imaginativa continuò a far parlare di sé.
Il sospetto che la guarigione di Carlo non fosse piovuta dal cielo, ma fosse dipesa dalla sua stessa immaginazione, venne, oltre che al chierico e al secondo infermiere, Carlo Porcelli, al promotore della fede, Benedetto Veterani. Nelle animadversiones redatte per la beatificazione di Francesco Caracciolo, trasformò il timido sospetto in un solido argomento: l’ammalato era affetto da ulcera gastrica – e non da compromissioni polmonari –; in questo caso, la vis imaginationis del languente avrebbe potuto rimarginare l’abrasione. Una tesi quest’ultima che, come in passato, nel caso delle stigmate di san Francesco, o dell’apparizione nei cieli di san Celestino, si rivelò purtuttavia debole. Nonostante ciò, l’immaginazione transitiva e, in special modo, la teoria nella sua forma settecentesca, si è dimostrata una lente favorevole per studiare la percezione che gli uomini e le donne del XVIII secolo avevano della natura, della sovrannatura e del rapporto tra i due domini dell’essere. Un rapporto, va da sé, di tipo storico; storicizzato, come Laverda mette in guardia chi volesse sorprendere il problema al sorgere, nella tarda antichità: «invano cercheremo la parola sovrannaturale nei testi di Agostino: questo perché egli intendeva la relazione tra Dio e natura in modo differente rispetto a come verrà intesa a partire dal tardo Medioevo, quando la parola sovrannaturale farà la sua comparsa nei testi della teologia scolastica» [4]
. Difatti, del tutto particolare, e a suo modo unica, è parsa la relazione tra natura e sovrannatura nell’episodio campione; più in generale nel periodo e nell’area geografica individuati. Ora, in conclusione, si proverà a tracciarne un profilo che appaia quanto meno sfumato. A tal motivo, aiuterà riportarsi alla domanda fondamentale: può l’immaginazione rimarginare una ferita?
Per un medico o un teologo del Settecento la risposta suonava recisa: no! Al netto di ciò, essi non tolsero mai alla {p. 201}facoltà, in tutto e per tutto, i poteri che fino a quel momento le erano stati riconosciuti; al più li limitarono. Certo, come si è avuto modo di appurare, il medico ordinario e le autorità apostoliche – il promotore della fede, gli avvocati pro causa, il perito – presupponevano che l’immaginazione umana non avrebbe potuto agire a distanza (actio in distans); non si era disposti ad ammettere che essa potesse avere un impatto sui corpi esterni, che stazionavano oltre le vene, le ossa, le arterie, ma soprattutto l’epidermide dell’immaginante; al punto da fare precipitare un cammello in un calidarium – per usare il celebre motto attribuito al filosofo persiano al-Ghazālī (1058-1111) [5]
. Anzi, a metà secolo, persino la capacità che tradizionalmente si attribuiva all’immaginazione materna – di imprimere macchie sul corpo del feto – iniziava a sbiadire: fu falsificata dal medico naturalizzato inglese James Blondel, sebbene tanto Ludovico Antonio Muratori, quanto Prospero Lambertini – e quindi chi come l’ordinario e il perito dipendevano dagli scritti di questi ultimi – continuassero all’occorrenza a fare appello ad essa.
Nondimeno, alla facoltà immaginativa fu lasciata un’ultima possibilità: di agire, se non sulla realtà esterna, sul corpo stesso dell’immaginante; ciò, non sine medio, ovvero non senza la collaborazione di un mezzo più o meno corporeo; il più delle volte di residui di epistemologie animistiche, come gli spiriti, che «si formavano della parte più pura e sottile del sangue delle arterie» [6]
. Muratori – da una cui costa della Filosofia morale è tratta quest’ultima definizione – forniva un compendio del funzionamento della facoltà immaginativa che, come constatato, sarà preso a modello da diverse intelligenze del periodo; tra tutti, la griglia concettuale che egli predispose andò a innervare gli argomenti delle autorità religiose nelle positiones super dubio, in cui si discuteva la guarigione di de Vivis. Secondo un simile schema, il corpo umano è una macchina cordata, in cui gli organi principali, il cervello e il cuore, quindi i sensi, sono tra loro collegati {p. 202}dai nervi. Gli spiriti, che devono all’attività del cuore la loro generazione, raggiungono i nervi e scorrono dai sensi al cervello, e dal cervello ai sensi, consentendo all’individuo e di immaginare, e di muovere le membra (ambedue le funzioni, in reazione a uno stimolo esterno o a un’immagine prodottasi internamente, in via indipendente). Ne deriva che la sola fantasia «naturalmente è atta ad inviare con forza gli spiriti animali per le vie, glandole e pori del corpo, da qualche ristagno d’umori e ostruzione impediti, che superano ogni ostacolo, tornino a circolare i fluidi e ad esercitare le lor funzioni i nervi, i muscoli e tendini dianzi impigriti, o affatto abbandonati dal vivace e tanto necessario influsso de gli spiriti medesimi» [7]
. Dove ancora una volta, si noti, la vis imaginativa si sostanzia per accidens, ossia attraverso un medio, in coda a una tradizione che, come si è avuto modo di ripercorrere, potrebbe farsi iniziare con Tommaso d’Aquino.
Se nel caso di Carlo de Vivis le autorità religiose e mediche ritennero che l’immaginazione non potesse essere tanto vigorosa da cicatrizzare una piaga, ciò accadde perché – come rendeva noto de Iorio, uniformandosi alle acquisizioni della medicina e alle prospettive della teologia del periodo – la ferita (nello specifico, la lesione di un vaso sanguigno polmonare) impediva agli spiriti, preventivamente eccitati dalla fantasia, di irrorare le membra, vivificandole e imprimendo in esse variazioni. Non per questo, però, come notato, si riteneva che l’immaginazione non potesse agire in altre circostanze: purché l’azione riguardasse il corpo dell’immaginante. Tra tutti, si riporti alla mente, per l’ultima volta, il caso della gotta del piede da cui erano affetti i cosiddetti «podagrosi». Celebre era il racconto di allettati che, avendo avvertito una scossa sismica, erano stati sorpresi nell’atto di tirarsi su dal letto e fuggire sulle loro stesse gambe. Ci si persuadeva, dunque, che il figurarsi una morte violenta potesse favorire un rapido affrancamento dalla malattia. Quindi, come sostiene Elena Brambilla, e ora pare confermato dal caso esaminato, la Chiesa {p. 203}del XVIII secolo aderì al dettato di una «medicina razionale» che, pur facendo propria la visione meccanicistica di Cartesio e Gassendi, non rinunciava ad «anime, spiriti e pneumi». Una medicina che tentava di conciliare antichi e moderni; che epurava le filosofie del passato da un magismo non più sostenibile, poiché non più ragionevole (secondo un’idea di ragione valida in quel momento) e, «al tempo stesso, spunta[va] le armi teoriche dei moderni per darsi un facile smalto d’aggiornamento» [8]
. Tra le autorità più citate nelle positiones, l’autrice menzionava Stahl e Hoffmann. Due nomi che, alla luce dello studio di Francesco Paolo de Ceglia, I fari di Halle, si è appreso, a malapena avrebbero potuto trovarsi, se non nella stessa pagina, in uno stesso volume [9]
. Tra i due, difatti, il primo aderiva a un animismo, se si vuole, «neoplatonizzante», come azzardava Heinrich Philipp August Damerow, nei primi decenni dell’Ottocento [10]
; il secondo, al contrario, aveva insegnato ai giovani universitari di Halle la filosofia meccanicista di Cartesio. Alla luce della precedente dicotomia, sorprende constatare l’assenza del primo nome nelle positiones per la beatificazione di Francesco Caracciolo e, invece, trovarsi a inciampare, a più riprese, in quello del rivale: Hoffmann. Una presenza che già Sodano aveva confermato nelle animadversiones napoletane pubblicate a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Settecento; a tal proposito, lo studioso legittimamente deduceva: «è indubbio che a determinare un simile mutamento fosse stato il clima che si era instaurato in seno alla Chiesa col pontificato lambertiniano, con le sue tendenze ad accogliere alcuni aspetti del razionalismo del secolo» [11]
.
A proposito del rapporto tra natura e sovrannatura, Sodano prosegue: «ricondurre la malattia a cause razionali,
{p. 204}consentiva, invece, una via esclusivamente naturale, fatta di medici e di medicine e una via miracolosa, opera di Dio, unico creatore di quella realtà naturale e, quindi, unico in grado di sovvertirla» [12]
. Come il caso in esame ha mostrato, la guarigione di Carlo si faceva risalire a due soli, possibili, ordini di cause: l’immaginazione e il miracolo; dove il primo era sinonimo di ordine naturale, come esplicitava il medico di casa, Vincenzo de Iorio, in sede processuale. A dispetto di una simile equazione, immaginazione-natura, l’azione dell’immaginazione non era parificata a quella farmacologica: piuttosto, la si collocava un gradino più in alto sull’immaginaria scala dell’essere, dove all’apice sedeva Dio. Così, elevata, ma non abbastanza da oltrepassare il confine della natura, ne diveniva essa stessa il discrimine; la linea di demarcazione tramite la quale era possibile definire e riconoscere – via negationis – la portata e il darsi dell’intervento miracoloso. Ne risultava un taglio netto; profondo: l’immaginazione umana spazzava via l’intervento divino e, viceversa, l’intervento divino metteva alla porta l’azione della fantasia umana. Tertium non datur!
Note
[1] A. Vauchez, Les stigmates de saint François et leurs détracteurs dans les derniers siècles du moyen âge, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 80, 2 (1968), pp. 595-625, in particolare p. 597.
[2] M. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Milano, Bompiani, 2012, p. 173.
[3] E. Bloch, Avicenna e la sinistra aristotelica, a cura di N. Alessandrini, Milano, Mimesis, 2018 (ed. or. Avicenna und die Aristotelische Linke, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1963).
[4] A. Laverda, La nascita del sovrannaturale, cit., p. 11.
[5] T. Griffero, Immagini attive, cit., pp. 36-44.
[6] L.A. Muratori, La filosofia morale esposta e proposta a i giovani, cit., p. 43.
[7] Ivi, p. 68.
[8] E. Brambilla, La medicina del Settecento. Dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in F. Della Peruta (a cura di), Annali della Storia d’Italia, vol. VII, Malattia e Medicina, Torino, Einaudi, 1984, pp. 46-54, in particolare pp. 26-28.
[9] F.P. de Ceglia, I fari di Halle, cit.
[10] H. Damerow, Die Elemente der nächsten Zukunft der Medicin, Berlin, G. Reimer, 1829, pp. 160r-v.
[11] G. Sodano, Il miracolo nel Mezzogiorno d’Italia, cit., p. 277.
[12] Ivi, p. 278.