Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c3
Capitolo terzo Un santo
Abstract
Vengono qui discussi i punti di vista delle autorità apostoliche emerse durante il processo nei confronti dell’attendibilità del miracolo. Come nel capitolo precedente, le analisi esposte si rivelano cruciali per inquadrare luoghi e modalità in cui i confini tra immaginazione e miracolo, natura e sovrannatura, scienza e fede, vennero a delinearsi nella Napoli dell’epoca. È inoltre rilevante la collocazione temporale dell’evento, contestualizzabile in un momento centrale della beatificazione del Caracciolo.
1. In Curia
Escussi i testimoni nel corso del
perfezionamento dei processi super virtutibus e super
miraculis, si passò alla fase curiale, condotta dalla Congregazione dei Riti
[1]
. Tale momento rappresentava il cuore pulsante del processo apostolico;
quello in cui le autorità del concistoro esaminavano e questionavano al fine di
attribuire al servo virtù eroiche o di ammettere un miracolo
[2]
. L’indagine sui miracoli prevedeva due tappe: la
probatio, nella quale si ricostruiva l’evento e si verificavano
i fatti (quaestio facti); e la relevantia, in
cui li si giudicava (quaestio iuris)
[3]
: che un degente fosse guarito era un fatto; che la guarigione fosse dipesa
da un evento soprannaturale era un fatto giudicato miracoloso.
L’accento che la cultura
sei-settecentesca poneva sui fatti e sulla necessità di una loro dimostrazione, a
ragione, ha fatto ¶{p. 140}parlare gli storici di «cultura dei fatti»
[4]
. Simile propensione, tra le altre cose, investiva la stessa concezione di
miracolo. Affidandosi alla ricostruzione tentata da Alessandro Laverda, l’evento
miracoloso, a partire dal tardo Medioevo, fu inteso non più solo come «segno» – della
presenza di Dio, col fine di convertire i miscredenti, e di umiltà del santo, che ne
confermasse le virtù e l’esemplare condotta di vita – ma come fatto necessario di essere provato
[5]
. «Fu un cambiamento sostanziale ed epistemologico – continua lo studioso – e
che potremmo definire ugualmente come passaggio da un significato teologico a uno
giuridico di miracolo»
[6]
. Una transizione semantica che favorì l’apertura delle porte della Curia ai
medici, a cui si richiedeva di effettuare una diagnosi che decretasse l’ordine (naturale
o sovrannaturale) delle cause di un fenomeno
[7]
. Tuttavia, ai periti era lecito pronunciarsi solo sul primo dei termini
della succitata diade (probatio e relevantia)
– parecchio dibattuta al tempo: sulle «questioni di diritto» (quaestio
iuris), non su quelle «di fatto» (quaestio facti);
quindi sulla definizione dell’evento (se fosse o meno un miracolo) e non
sull’accertamento della sua esistenza. Al medico Giovanni Maria Lancisi (1654-1720), lo
ribadì il postulatore della causa nel processo di beatificazione (1712-1715) del gesuita
francese Jean-François Régis (1597-1640):
il compito del medico consiste solo nell’esprimere un giudizio secondo i principi dell’arte, ossia se la guarigione dalla malattia abbia superato le forze della natura o no; solo questi sono i doveri del medico, se oltrepassa questi limiti, oltrepassa i limiti del suo compito [...]. I periti medici non devono presentare alla Sacra Congregazione un giudizio sulla questione di fatto, ma solo sulla questione di diritto (medicus a Sacra Congregatione non ahibetur ad ferendum iudicium super puncto facti, sed super puncto iuris) [8] .¶{p. 141}
La fattualità dell’evento, invece,
era certificata dai testimoni, alle cui dichiarazioni si attribuivano vari gradi di
attendibilità, che si facevano dipendere da diversi fattori, tra cui l’età, il sesso, lo
status sociale e il punto di vista. I bambini erano ritenuti meno affidabili degli
adulti, le donne meno degli uomini, i popolani meno dei nobili e i testimoni uditivi
(de auditu proprio) meno di quelli oculari (de
visu). Per di più, era necessario raccogliere almeno due deposizioni di
osservatori, presenti in contemporanea sul luogo e al momento dei fatti, per assicurare
la veridicità di questi ultimi
[9]
.
Come anticipato, l’avvenimento, in
quanto fatto, era accertato dai curiali nella summenzionata fase della
probatio. Anch’essa seguiva criteri piuttosto definiti, come il
soprassedere nel caso di discordia tra i testi «non in cose sostanziali, ma in cose
accidentali» o il dover accogliere la varietà delle loro deposizioni, «se uno riporta
qualcosa che l’altro non riferisce»
[10]
. Sul primo punto, valeva l’autorità di Tommaso (Summa
theologiae, II.II, q. 70, art. 2, ad. 2): «se il tempo era nuvoloso o
sereno, o se la casa era tinta o no oppure cose del genere, tale discordia non
pregiudica la testimonianza, dal momento che circa tali cose le persone non sono solite
essere sollecitate, per cui facilmente svaniscono dalla memoria»
[11]
. Anzi, si credeva che le divergenze accidentali aumentassero la credibilità
di una testimonianza «come Crisostomo dice su Matteo, perché, se concordassero in tutto,
anche nelle cose minime, sembrerebbero proferire lo stesso discorso in seguito a un
accordo, cosa che viene lasciata da discernere alla prudenza del giudice»
[12]
. Lo stesso san Giovanni (Super Matthaeum commentarii,
Homilia I), alle cui parole ci si rimetteva circa il secondo
punto, rasserenava: «se poi nei miracoli non tutti dissero tutto, ma uno alcune cose, un
altro altre, per questo non ti turberai: se uno infatti avesse detto ogni cosa,
sarebbero superflui gli ¶{p. 142}altri; se poi tutti scrivessero cose
diverse e nuove, nessun argomento basterebbe alla concordanza»
[13]
.
Suscita non poca sorpresa il fatto
che, per diverso tempo, gli storici abbiano trascurato l’esame della tappa
dibattimentale del processo. Al punto che, tanto l’organizzazione istituzionale e
procedurale di tale fase, quanto i documenti che nel corso della stessa venivano
redatti, restarono a lungo obliati. A grandi linee, fino agli anni Duemila, quando lo
studio di Giulio Sodano, Modelli e selezione del santo moderno. Periferia
napoletana e centro romano, tra i primi, impresse un’inversione di
tendenza nelle ricerche di campo. Nell’introduzione all’opera, lo storico ricostruisce
con rigore la struttura della parte conclusiva del processo apostolico; quindi, si serve
della documentazione prodotta in tale circostanza per affrontare, da una nuova
prospettiva, il tema della santità napoletana in età moderna
[14]
.
Nelle pagine sunnominate, si apprende
che la fase dibattimentale del processo apostolico era scandita in quattro momenti:
l’informatio, in cui i postulatori della causa ritornavano
sugli aspetti rilevanti della santità del servo di Dio; il
summarium, in cui venivano presentati
stralci delle testimonianze dei processi, rubricate sotto le singole virtù (teologali e
cardinali) o ordinate per miracoli; le animadversiones, che
raccoglievano i dubbi (dubia) mossi dal promotore della fede; dubbi
a cui, nell’ultima sottosezione, la responsio, l’avvocato difensore
della causa dava risposta. Nell’insieme, le quattro sezioni componevano la cosiddetta
positio super dubio.
Tale documentazione veniva
sottoposta all’attenzione di tre congregazioni: l’antipreparatoria,
che era presieduta dal cardinale ponente, dal cardinale relatore, dai consultori, dal
promotore e dai postulatori. Aveva il compito di informare il primo dello stato della
causa; la seconda, quella preparatoria, era presieduta da tutti i
cardinali della Congregazione dei Riti e aveva il compito di informare questi ultimi
sullo stato dei lavori; l’ultima, generale, vedeva la presenza del
papa. ¶{p. 143}In essa, i cardinali votavano a favore (o contro) la
manifestazione dell’eroicità del candidato o il riconoscimento di uno o più miracoli.
Nel caso di Francesco Caracciolo,
deceduto quasi un secolo e mezzo prima del processo super miraculis
del 1753, si poté procedere relativamente presto alla fase dibattimentale. Essa fu
avviata a soli tre anni di distanza dalla conclusione di quest’ultimo. Difatti,
risalgono al 1756 i dubia mossi dal promotore della fede, Benedetto
Veterani – come si ricava dalle sue stesse parole
[15]
.
La pubblicazione della
positio, nel suo complesso, è datata cinque anni dopo, al 1761,
Ex Typographia Reverendae Camerae Apostolicae, ossia presso la
tipografia o stamperia camerale. L’operazione, che prevedeva la produzione di «sessanta
esemplari, a meno che il segretario della detta Congregazione dei Sacri Riti non
desideri più copie» – era vincolata da «un prezzo stabilito e tassato»
[16]
. E solo nel caso in cui il tipografo della Camera si fosse rifiutato di
svolgere tale compito, si dava la possibilità di imprimatur ad
altri stampatori, purché esercitassero il mestiere al di qua dei confini della città
[17]
. Inizialmente, con il breve Coelestis Hierusalem cives
del 1634, completato nel 1642, Urbano VIII «aveva proibito espressamente che
nelle cause di beatificazione e canonizzazione potessero essere stampate le relazioni
degli uditori di Rota, le informationes di fatto e di diritto e
tutte le altre scritture relative alle cause di beatificazione e canonizzazione prima
della fine delle stesse cause»
[18]
. Dopodiché, il decreto emesso da Alessandro VII, il 9 aprile 1661, concesse
di pubblicarle «nonostante i predetti decreti, i quali in questa occasione il santo
padre annullò e volle fossero annullati», prima del riconoscimento ufficiale della
¶{p. 144}beatificazione o della santità del candidato
[19]
. Restava fermo che «tutte le informationes, sommari e
tutte le altre scritture relative alle canonizzazioni, sebbene stampate riviste
sottoscritte e sigillate come sopra, non costituiscono per niente un grado di prova
maggiore in ordine alla beatificazione e alla canonizzazione»
[20]
. Più che altro, aiutavano a risolvere problemi di ordine pratico, come
spiegava il decreto edito il 19 luglio 1661: «per esperienza è stato accertato che in
quegli esemplari stesi dagli amanuensi, per la loro imperizia e incuria, sono confluiti
molti errori, che possono falsificare il loro senso, e i postulatori sono costretti a
sottoporsi a gravi spese, che potrebbero in massima parte diminuire se ad essi fosse
lecito avere gli esemplari stampati». Averli prima di sottoporre la documentazione al
voto dei commissari, si intendeva
[21]
.
Note
[1] Come precisa G. Sodano, Modelli e selezione del santo moderno, cit., p. 23: la Sacra Congregazione dei Riti «in realtà entrava già nel merito della procedura successivamente allo svolgimento dei processi istruiti dall’autorità vescovile, con la signatio Commissionis introductionis causa. La congregazione proponeva al pontefice la signatio, dopo aver accertato la fama di santità, delle virtù eroiche e dei miracoli, l’assenza di errori negli scritti e l’assenza di culto indebito, sulla base dei processi svolti dall’autorità diocesana».
[2] Come da decreto di Urbano VIII del 20 novembre 1627, la fase dibattimentale, che avrebbe portato a un simile riconoscimento, ebbe inizio non prima che fossero trascorsi cinquant’anni dalla morte del candidato, precisamente il 2 settembre 1738. Cfr. A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., p. 248. La «regola dei cinquant’anni» decadeva nel caso in cui il culto del candidato si fosse protratto da oltre un secolo: in tal occasione si sarebbe potuto procedere immediatamente alla discussione. Cfr. S. Ditchfield, «Coping With the Beati Moderni», cit., p. 435.
[3] A. Laverda, La nascita del sovrannaturale, cit., pp. 112-113.
[4] L. Daston, Baconian Facts, Academic Civility and the Prehistory of Objectivity, in «Annals of Scholarship», 8 (1991), pp. 337-364.
[5] A. Laverda, La nascita del sovrannaturale, cit., p. 93.
[6] Ivi, p. 97.
[7] S. de Renzi, Witnesses of the Body: Medico-Legal Cases in Seventeenth Century Rome, in «Studies in History and Philosophy of Science», 33 (2002), pp. 219-242.
[8] A. Laverda, La nascita del sovrannaturale, cit., pp. 118-119.
[9] Ivi, p. 113. Cfr. inoltre DSDB, lib. III, cap. 1, nr. 6.
[10] DSDB, lib. III, cap. 7, nr. 10, trad. p. 176.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem, trad. p. 177.
[14] G. Sodano, Modelli e selezione del santo moderno, cit., pp. 23-25.
[15] Animadversiones [...] super dubio, in PSD, nr. 41, p. 15: «usque ad praesens tres tantum effluxerint anni».
[16] Decreto di Alessandro VII in DSDB, lib. I, cap. 19, nr. 20 e nrr. 22-23, trad. pp. 435 e 437-438.
[17] Ivi, lib. I, cap. 19, nr. 22, trad. p. 438. Direttiva ripresa nel decreto del 23 luglio 1661.
[18] Ivi, lib. I, cap. 19, nr. 18, trad. p. 433.
[19] Ivi, lib. I, cap. 19, nr. 19, trad. pp. 434-435; G. Sodano, Modelli e selezione del santo moderno, cit., p. 37. Le Animadversiones furono stampate dalla Tipografia Vaticana a partire dal Settecento. Per fortuna disponiamo di un numero ingente di tomi dedicati ai candidati napoletani. Cfr. l’elenco in J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., p. 488.
[20] DSDB, lib. I, cap. 19, nr. 21, trad. p. 437.
[21] Ivi, lib. I, cap. 19, nr. 19, trad. p. 434.